La ricerca azione trae origini dalle riflessioni di Kurt Lewin. Secondo la visione della ricerca azione, parlare di ricercatore distaccato dalla realtà studiata non ha senso: il ricercatore è inserito in un contesto di rapporti sociali, politici, economici, quindi, anche quando pensa di essere distaccato dalla realtà che studia, è comunque parte di un sistema che condiziona la scelta dei temi su cui opera la sua attività, dei paradigmi che adotta e delle concrete procedure di ricerca, arrivando ad influenzarne anche i risultati. In questa visione è evidente l’influenza della teoria del campo enunciata dallo stesso Lewin. In aggiunta un ricercatore distaccato non potrebbe mai raggiungere una condizione di empatia con i soggetti studiati dato che, non condividendo la loro stessa realtà quotidiana, rischierebbe di adottare categorie interpretative non adeguate per la comprensione di quella data realtà. Prendendo coscienza dell’impossibilità di un totale distacco emotivo dalla realtà studiata e dai rischi che questo distacco può comportare in termini di possibilità di interpretazione e comprensione, il ricercatore dovrebbe quindi rinunciare del tutto a questo distacco ed immergersi completamente (fisicamente, culturalmente ed emotivamente) nella realtà studiata. Questo però non è possibile, ad esempio, per il ricercatore accademico che fa ricerca sulla scuola o sui centri di servizi educativi, dato che egli non vive quotidianamente quella realtà. Chi dovrebbe fare ricerca azione dunque? I soggetti deputati a tale ruolo dovrebbero essere gli operatori sul campo che normalmente sono coinvolti in quelle attività (detti stakeholders, che significa “coloro che hanno una posta in gioco”), ossia gli insegnanti, gli educatori, i formatori, ma anche gli alunni, i genitori, gli utenti del servizio. Il ricercatore accademico muterebbe il suo ruolo in consulente esterno o in membro del gruppo di ricerca in una posizione paritaria con gli operatori. Quale potrebbe essere lo scopo di una siffatta ricerca? Non potrebbe sicuramente puntare ad intenti nomotetici dato che la ricerca avverrebbe e avrebbe significato in un contesto spaziotemporale situato e ben delimitato. I suoi intenti dovrebbero essere quindi idiografici e le sue finalità quelle di migliorare la realtà educativa in cui gli operatori si trovano ad agire In altre parole dovrebbe essere una ricerca-intervento mirata ad individuare problemi ed inefficienze nell’attività concreta di chi opera sul campo e nel delineare e sperimentare linee di intervento e soluzioni adeguate a quel preciso contesto, proprio perché concepite sulla base di una conoscenza approfondita, sistematica, scientifica, ma anche carica di coinvolgimento emotivo, “sentita”, “vissuta”, della realtà sotto esame.