Possiamo
valutare come in ogni persona esista una domanda di identificazione ed un
bisogno di differenziarsi. L’identità personale non si delinea soltanto come un
riconoscimento di sé ma anche come un riconoscimento da parte di altri.
Ognuno
nel rapporto con gli altri ottiene conferma, rifiuto o negazione. L’identità
personale è percezione di sé come essere distinto da altri, in quanto portatore
di un insieme di caratteristiche diverse dal prossimo.
È
valutazione di sé, individuo, con una propria coerenza, stabilità e continuità
che persiste nel tempo
(I92).
L’identità si costruisce per intersezione di diversi fattori, biologici,
ambientali, culturali ma anche attraverso le nostre scelte. È intreccio fra
realtà, desideri e vissuto. È possibile sperimentare la nostra specificità
attraverso l’esperienza con gli altri, con l’attenzione a non assorbire ed
annullare identità specifiche
(I93)
(I94).
Gli
educatori, gli insegnanti, la scuola in generale, devono essere consapevoli
della possibilità di arricchirsi attraverso la molteplicità, contro ogni
rigidezza pragmatica e dogmatica, nella necessità di valorizzare le dimensioni
del dialogo, della comunicazione, dell’accettazione e della ricerca dell’alterità.
Il
rischio maggiore a livello sociale è di contrastare espressioni di vita
culturale e mentalità difformi proponendo un pensiero globale, invece di
accettare e promuovere diversità ed alternative, valorizzare il pensiero
divergente quale risorsa importante per la formazione di persone libere e
creative. Sarebbe importante in ognuno nascesse la consapevolezza che le persone
possono vivere con modalità diverse le stesse situazioni, condividendo la
comunitaria partecipazione all’esperienza umana.
Erikson
ricorda il ruolo dell’educazione e della formazione sull’identità della persona
in quanto afferma come la sua costruzione sia possibile unicamente all’interno
di un contesto culturale e sociale, con stimoli provenienti dalle cure del mondo
degli adulti. Acquisire conoscenze e competenze contribuisce al riconoscimento
di sé e alla costruzione identitaria.
Il
percorso educativo/formativo/istruttivo ha un’influenza rilevante sullo sviluppo
dell’identità sia perché la scuola è luogo simbolico dell’identità culturale di
una comunità, sia perché essa è soggetto socialmente riconosciuto per la
trasmissione culturale.
5.2. Taylor – senso dialogico
Taylor
tratta la caratterizzazione della vita umana in senso dialogico in quanto
definiamo ed esprimiamo la nostra identità
(I13)
(I14) attraverso i linguaggi (verbale, gestuale, dell’arte, dell’amore…),
determinati attraverso lo scambio con gli “altri significativi”. Per definire
noi stessi abbiamo bisogno di relazioni.
Il
filosofo afferma che “la nostra identità è formata dalle persone che amiamo”
rimarcando il ruolo che hanno gli adulti che si curano di noi dall’infanzia,
comprendendo perciò genitori, famigliari, figure significative come insegnanti
ed educatori.
L’identità è chiarita e mantenuta nel tempo in modo dialogico. Realizziamo la
nostra identità soltanto tenendo ben presente l’altro dal quale abbiamo bisogno
di riconoscimento continuo. Attraverso il dialogo ed il confronto ci si accorda
su valori e significati, in un rapporto di autentica reciprocità, evitando la
strumentalizzazione dell’altro e l’inganno.
L’uomo è chiamato a essere responsabile dell’autenticità di se stesso,
percorrendo la via del miglioramento come ideale morale.
Taylor
immagina possa esserci questa opportunità nella libertà di scelta insita
nella prospettiva umana.
5.3. Sullivan – stima riflessa
Lo
psichiatra statunitense formula una teoria basata sulla nozione di “campo
relazionale” secondo la quale la personalità individuale è un prodotto
dell’interazione di campi di forza interpersonali, intesi molto concretamente
come l’insieme delle situazioni sociali nelle quali il soggetto si è venuto a
trovare nel corso della vita. In questo senso la stima si costruisce
nell’interazione, è riflesso dell’interagire con l’altro.
Sullivan
è convinto che la malattia mentale abbia origine da una perturbazione nelle
relazioni interpersonali. Studia il processo di connessione tra soggetti e
definisce dinamismo interpersonale ciò che facilita o impedisce il
consolidarsi di relazioni interpersonali soddisfacenti. Lo psichiatra è stato il
primo a parlare della persona come prodotto delle relazioni. La
personalità e il sé del bambino si creano attraverso la valutazione riflessa che
proviene da adulti significativi, genitori o sostituti, quali ad esempio, al di
là della cerchia parentale, insegnanti o educatori. Quanto il bambino legge
riflesso nell’altro – adulto – determina il percorso di costruzione della
propria identità.
5.4. Identità negativa
Legandoci al pensiero di Sullivan possiamo
riflettere sul fatto che esista la possibilità – e si compia spesso – che il
bambino interiorizzi una immagine negativa di sé stesso in base alle aspettative
sfavorevoli delle persone significative, prime fra queste i genitori. Questo
porta il bambino ad assumere un comportamento che, col crescere dell’età, è
sempre più ostile e violento e che pregiudica tutte le sfere relazionali.
L’attenzione è quindi sul comportamento,
consapevole o no, di ogni adulto di riferimento per il bambino
(I37) Mailloux
(I98) considera cinque aree suscettibili di miglioramento da parte degli
educatori (qualunque essi siano, genitori o insegnanti), l'atteggiamento, la
mimica, la gestualità, la distanza (fisica e psicologica), il tono (della voce e
del discorso). Attraverso queste modalità abbiamo visto come sia possibile
“avvicinare” o “allontanare” emotivamente una persona, occorre perciò avere
consapevolezza del ruolo che investono nel percorso di formazione di un
fanciullo.
5.5. Bisogni di autostima - piramide di Maslow
Un utile classificazione dei bisogni è quella
proposta da Maslow nel 1954 che descrive una piramide che ha alla sua base i
bisogni biologici (come quelli di cibo, aria, acqua…), e, salendo, i bisogni di
sicurezza (come quelli di attaccamento), i bisogni di appartenenza (come il far
parte di gruppi sociali e avere valide relazioni affettive con altre persone), i
bisogni di stima e considerazione (come essere persone ben considerate ed
onorate), e, al vertice, i bisogni di autorealizzazione (essere capaci di avere
e sviluppare relazioni con altri…). Non possiamo comunque troppo
semplicisticamente affermare che la sequenza gerarchica sia sempre così
definita.
Maslowdistingue
bisogni di stima da parte di altri e bisogno di autostima. I primi riguardano il
desiderio di essere apprezzati, ben valutati e rispettati dagli altri e di
ricevere attenzione e riconoscimento per quello che si fa. Il secondo fa
riferimento al bisogno di sentirsi competente, capaci di affrontare il mondo,
indipendenti e liberi, ed è connesso al bisogno di mettersi alla prova. Il
bambino prova il bisogno di auto-realizzazione intesa come esigenza di fare ciò
per cui si sente predisposti, di sviluppare il più possibile le proprie doti,
capacità e potenzialità. Ricordiamo che qualunque bambino, anche il più dotato,
in un ambiente deprivato non ha stimolo di motivazione
(I38)
(I39)
(I40).
La percezione che la persona ha di se stessa è
premessa al suo sano interagire con l’altro, la condizione di benessere
psico-fisico si lega alla considerazione delle proprie capacità, risorse,
limiti. L’autosvalutazione della propria vita può avere diverse cause, anche la
svalutazione da parte di adulti (ma anche fra pari) in contesti educativi, dove
la relazione ha valore primario.
Jean Paul Sartre afferma che è “nello sguardo
dell’altro io trovo il mio sé”. Si struttura nella continua interazione con le
figure genitoriali ed adulti di riferimento. Nella evoluzione personale si
sviluppano maggiormente quelle attitudini che hanno avuto dall’ambiente messaggi
comunicativi assertivi. Si evidenzia così come alcuni ambiti (sociale,
famigliare, scolastico) siano basilari per determinare l’autostima,
l’apprezzamento generale del sé, delle componenti della propria personalità in
quanto si basano sulle considerazioni e valutazioni provenienti da questi
ambienti sociali.
Si sperimentano frequentemente scenari in cui
la comunicazione è ricca e gratificante, positiva per la costruzione di sé e per
l’autostima ma altrettanto spesso la comunicazione rischia di essere non solo
non favorevole ma addirittura dannosa.
La struttura delle interazioni con gli adulti
(e i messaggi di questi ultimi) influisce sulla stima che il bambino ha di sé,
sul valore che attribuisce a se stesso. Il senso di autostima è il perno attorno
al quale ruota l’intero processo di sviluppo della personalità e può quindi
avvenire armonicamente soltanto nel caso in cui questa sia positiva, diventa
perciò indispensabile evitare quelle comunicazioni che inducono il bambino a
diffidare di sé, a rinnegare i propri sentimenti e a dubitare del proprio
valore.
5.6. Ragazzi difficili - costruzione sociale
della devianza
Si intende evidenziare la corresponsabilità
degli adulti nella produzione sociale della devianza minorile
(I41)
(I42)
(I43)
(I44).
Relativamente a ragazzi, preadolescenti o
adolescenti, nel caso in cui le prime esperienze di contatto con scuole e
servizi pubblici siano prevalentemente di tipo conflittuale, si determinano, a
volte anche per il resto della vita, possibili atteggiamenti di distanza, di
diffidenza o di sfida verso le istituzioni, coinvolgendo spesso l’intera
società, percepita come avversa. Questa mancanza di disponibilità da parte
dell’educando non ha un’unica causa e un unico punto di vista. Fattori come
difficoltà e disinteresse possono essere legati alla convinzione di non farcela.
Bertolini sostiene che la condizione essenziale perché sia possibile un
intervento educativo di recupero è la conoscenza, oltre che del vissuto, del
senso che il soggetto attribuisce al vissuto stesso.
Alcuni ragazzi non riuscendo a superare il
momento di difficoltà che stanno vivendo, chiedono aiuto agli adulti, con
messaggi diretti o in modo indiretto ed inconscio. Spesso il discente cerca
l’appoggio dell’educatore primariamente come persona e poi come professionista.
La costruzione sociale della devianza è nelle
forme di comunicazione interpersonale. Pur rilevando che frequentemente i
ragazzi che subiscono l’arresto effettivamente provengono da zone o situazioni
svantaggiate, non è lecito etichettare questi minori. Un motivo di tale
evidenza potrebbe essere semplicemente perché in alcune zone ed in determinate
situazioni si fanno più controlli e perciò è più frequente l’arresto. Diverse
ricerche mostrano che non c’è relazione tra atti delinquenziali e classe sociale
(anzi, volendo fare una riflessione, sono più spesso legate alla classe media).
Molto dipende dalla percezione dello status del trasgressore, quanto è
definibile come costruzione sociale della devianza. Il giovane arriva a
confermare, con il suo comportamento, l’identità sociale attribuita, si tratta
perciò di un adeguamento.
Responsabile del comportamento deviante il
rapporto tra frustrazione ed aggressività, legate al complesso di inferiorità e
ad una strutturazione debole del super-Io.
Può essere rilevante l’atteggiamento di
insegnanti ed educatori nell’evidenziare al soggetto aspetti positivi della
propria personalità, evitando di rimarcare quelli non adeguati perché non vi si
adatti, creando così un circolo chiuso. Anche qui l’aspettativa di un certo tipo
di comportamento sia da parte del soggetto che l’agisce, che dell’adulto, può
essere causa della determinazione dello stesso.
Il rischio è definire inconsapevolmente una
certa identità negativa. Un atteggiamento fiducioso, aperto e disponibile da
parte dell’adulto potrebbe contribuire a rendere improbabile uno sviluppo
deviante in ragazzi a rischio. Per alcuni ragazzi vivere un mondo relazionale
contraddistinto dal disagio fa nascere la loro vulnerabilità, il loro sentirsi
pre-giudicato. L’educatore deve fare il modo che il fanciullo giunga alla
percezione di una diversa immagine di sé, non legata all’etichetta che si è data
e che, spesso, il mondo adulto, tramite le sue aspettative, ha contribuito a
dare, perché è certamente il primo passo perché arrivi ad adottare un diverso
stile di vita.
Il fulcro del processo è quindi riuscire a
modificare la percezione che il ragazzo ha di sé pur nella consapevolezza che,
per chi è cresciuto in una subcultura per la quale la normalità è costituita
dall’adozione di comportamenti devianti, non è facile adottare stili di vita
diversi da quelli assimilati e incontrati fino a quel momento.