È Jakobson, in particolar modo, a fornire a Lévi-Strauss gli strumenti per la fondazione di una teoria che trasporta e ritraduce in ambito antropologico
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i procedimenti messi in atto dalla linguistica per studiare i sistemi di relazioni generative di significato. Il fondatore dell’antropologia strutturale riconosce a Propp l’importante ruolo avuto nello scardinamento di quelle che ritiene essere interpretazioni del mito “ingenue”. In questa categoria vanno inserite non soltanto le interpretazioni allegoriche del mito, ma anche quelle fornite dalla psicoanalisi, nonché degli studiosi di mitologia di fine ottocento e inizio novecento di area tedesca, di Frazer
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nel suo celebre Ramo d’oro.
Il punto in cui Lévi-Strauss si separa nettamente dal formalismo di Propp è nell’atteggiamento verso il concreto. Diversamente dal formalismo lo strutturalismo rifiuta di separare il concreto dall’astratto e di attribuire priorità a quest’ultimo. La struttura non ha un contenuto diverso dalla materia, su cui si impone. La struttura è lo stesso contenuto, appreso in una organizzazione logica come proprietà del reale.
Il pensiero selvaggio
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, il pensiero del mito, non è pre-logico ma logico. E’ il pensiero che lavora ad un primo livello, quello del concreto, del sensibile. E’ di fatto proprio la “logica del concreto”: un pensiero classificatore che utilizza delle categorie empiriche (crudo e cotto
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, fresco e marcio, bollito e arrostito) come veri e propri strumenti concettuali per”liberare” delle nozioni astratte e concatenarle in proposizioni.
Nella prospettiva lévi-straussiana le narrazioni mitologiche
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danno corpo a un sistema simbolico –un sistema di segni paragonabile a quello di una lingua- che articola e organizza le opposizioni sulle quali si fonda una data società (in primo luogo quella tra natura e cultura, intorno a cui ruota tutto l’universo dei miti), e viene dunque a costituire una sorta di matrice di intelligibilità che le consente di collocarsi nel mondo.
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