La forza distruttrice di un’ambizione sfrenata
Il tema centrale del Macbeth – la distruzione totale quando l’ambizione non viene tenuta a freno da limiti morali – trova la sua più grande espressione nei due protagonisti dell’opera. Macbeth [E8] è un coraggioso generale scozzese che per natura non è incline a commettere azioni malvage ma desidera ardentemente il potere e la fama. Uccide Duncan [F4] contravvenendo ai suoi principi morali e in seguito si lacera tra i sensi di colpa e la paranoia. Verso la fine della tragedia precipita in un’abisso di disperata follia. Lady Macbeth, d’altro canto, persegue i propri obbiettivi con grande determinazione anche se si rivela meno pronta a sopportare le conseguenze delle sue azioni immorali. Si tratta di uno dei personaggi shakespeariani più estremi: fa di tutto per convincere il marito ad uccidere spietatamente Duncan e lo incita a farsi coraggio nell’affrontare le conseguenze dell’omicidio; tuttavia le atrocità commesse dal marito peseranno talmente tanto sulla sua coscienza che il suo equilibrio psichico ne sarà compromesso. In entrambi i casi, l’ambizione – coadiuvata ovviamente dalle funeste profezie delle streghe – è ciò che spinge la coppia verso nefandezze sempre più ignobili. La teoria che sembra sottostare all’intera opera consiste nel fatto che quando si decide di usare violenza per raggiungere i propri scopi, fermarsi diventa un’impresa sovrumana. Le minacce al trono sembrano non finire mai – Banquo, Fleance, Macduff – ed è sempre forte la tentazione di ricorrere alla violenza per sbarazzarsi dei nemici.
Macbeth è la rappresentazione della sete di potere, di un’avidità irrefrenabile che una volta scatenata non si ferma davanti a nessun ostacolo perché il fine ultimo oltrepassa qualunque cosa possa essere raggiunta.
La realtà perde di significato se paragonata ai desideri più inconfessabili di una mente in preda al delirio. Ecco che lo spettatore assiste ad un vero e proprio distacco dalla realtà.
Nel corso della Storia molti uomini hanno vagheggiato repubbliche ideali e principati illuminati che non si sono mai realizzati. Ma la discrepanza tra come si dovrebbe vivere e come si vive è tale che colui che trascura ciò che succede e bada solo a ciò che si dovrebbe fare si incammina sul sentiero dell’autodistruzione.
Il filosofo Niccolò Machiavelli (1469-1527) [F5] [Es7] [E9] affermò che la cupidigia conduce alla rovina, un concetto fondamentale in quest’opera shakespeariana.
Il dramma si apre con tre streghe che rendono omaggio a Macbeth con tre appellativi di prestigio: signore di Glamis (lo è già), signore di Cawdor (lo diventerà a breve) ed infine re di Scozia [F6] [F7] [Es8]. Macbeth, uomo pervaso da un’ambizione smisurata, viene tentato da questi titoli e, aiutato dalla moglie, uccide ad uno ad uno i suoi rivali al trono. Di conseguenza la ricerca del potere a tutti i costi determina il suo destino. Lo psicologo Erich Fromm (1900-1980) [I8] [F8] [Es9] [E10] affermò che la cupidigia è un pozzo senza fondo che tormenta l’essere umano e lo induce a spendere tutte le proprie energie per soddisfare un desiderio che però, una volta soddisfatto, non dà alcuna gratificazione. Shakespeare fa capire al pubblico che colui che, accecato dalla sete di potere, danneggia gli altri (perché rappresentano un intralcio insopportabile) finisce per distruggere se stesso e i suoi cari, mentalmente e moralmente.
Macbeth combatte una guerra senza regole, una partita mortale in cui l’uomo approfitta del prossimo per vincere e rivendicare il titolo di re.
“Se tutto fosse fatto, una volta fatto, allora sarebbe bene che fosse fatto presto: se l'assassinio potesse arrestar nella rete le conseguenze, e con la cessazione di esse assicurare l'esito, sicché questo solo colpo fosse il principio e la fine del mio atto, qui, qui soltanto, su questo banco, su questa secca del tempo noi arrischieremmo, con un salto, la vita futura. Ma in casi come questo, noi abbiamo da subire un giudizio anche qui: giacché noi non facciamo che insegnare opre di sangue, le quali, appena insegnate, finiscono per punire il maestro. Questa giustizia dalla mano imparziale porge alle nostre labbra stesse la miscela del nostro calice avvelenato” (Atto I, scena VII).
Macbeth nutre sentimenti contrastanti quando pensa all’omicidio di Duncan, che oltre ad essere il sovrano è anche suo cugino. Esita ad uccidere Duncan perché teme le conseguenze che potrebbero in qualche modo sopraggiungere e affliggerlo. Si chiede come reagirebbero i sudditi ma la sua ambizione soffoca le paure e la coscienza che lo tormentano. Oramai la sua moralità è compromessa. Infatti il tragico eroe, anziché chiedersi se l’azione che sta per commettere è giusta oppure no, si preoccupa solo delle pesanti conseguenze che potrebbe affrontare nel caso il suo piano fallisse. É chiaro che Macbeth non prova né teme alcun senso di colpa per l’omicidio.
Teme piuttosto Banquo, la cui esistenza rappresenta un ostacolo all’avverarsi delle profezie. “I timori che ci desta Banquo fanno presa profonda, e nella regalità della sua natura regna ciò che vuol essere temuto: egli osa molto, e a questa indomita tempra dell'anima aggiunge una prudenza, che guida il suo coraggio ad agire con sicurezza. Non v'è che lui la cui esistenza io tema: e davanti a lui il mio genio si sente represso, come dicono accadesse a quello di Marco Antonio dinanzi a Cesare. Egli investì le sorelle, quando la prima volta mi attribuirono il nome di re, e impose loro di parlare a lui; allora, con linguaggio profetico, esse lo salutarono padre di una stirpe di re. Così, sulla testa mi hanno messo una corona infeconda, e nel pugno uno sterile scettro, che mi sarà strappato da mano d'estraneo, poiché nessun mio figlio mi potrà succedere. Se è così, io mi sono macchiato l'anima per la progenie di Banquo; per loro ho assassinato il virtuoso Duncan; per loro unicamente ho versato l'odio nel vaso della mia pace e ho dato il mio gioiello eterno al nemico comune dell'uomo, per fare re loro, re il seme di Banquo!” (Atto III, scena I).Da questo momento in poi le deboli remore di Macbeth si dissolvono e qualsiasi assassinio è possibile se si frappone tra lui e la corona. “Ogni ragione dovrà cedere dinanzi al mio proprio interesse. Io mi sono inoltrato nel sangue fino a tal punto, che se non dovessi spingermi oltre a guado, il tornare indietro mi sarebbe pericoloso quanto l'andare innanzi. Ho in testa strani progetti, ai quali metterò mano, che devono essere eseguiti prima di poter essere ben ponderati” (Atto III, scena IV). Ancora più dure sono le sue parole dopo il consulto con le streghe all’inizio del quarto atto: “Da questo istante i primi nati del mio cuore saranno i primi nati della mia mano, e fin da ora, per coronare i miei pensieri con le azioni, sia pensato e fatto: attaccherò il castello di Macduff, m'impossesserò di Fife, passerò al filo della mia spada sua moglie, i suoi bambini e tutte le anime sciagurate che gli succedono nella sua discendenza” (Atto IV, scena I).
L’ambizione corrompe la moralità dell’uomo perché gli restringe la mente e lo spirito. Anche se indirettamente, le azioni guidate dalla cupidigia arrecano rimorsi tormenti strazianti. Il senso di colpa per un delitto atroce provoca a sua volta una dissociazione psichica nella mente dell’individuo: “Mi è sembrato di sentire una voce gridare: "Non dormire più! Macbeth uccide il sonno!"... il sonno innocente, il sonno che ravvia il filaticcio arruffato delle umane cure, che è la morte della vita d'ogni giorno, il bagno ristoratore del duro travaglio, il balsamo delle anime afflitte, la seconda portata nella mensa della grande natura, il principale nutrimento nel banchetto della vita” (Atto II, scena II). La caduta di Macbeth nel baratro dell’abiezione morale coincide con il logoramento delle sue facoltà mentali che peggioreranno ininterrottamente fino alla follia completa. “Ti prego, vedi là! guarda! osserva! ecco!... Che dici? Ah, che cosa mi turba? Se tu puoi far cenni col capo, oh, parla anche! Se i carnai e le tombe debbono rimandarci indietro quelli che noi seppelliamo, i nostri sepolcri, d'ora innanzi, saranno gli stomaci degli avvoltoi… Vattene, fuggi la mia vista! La terra ti nasconda! Le tue ossa sono senza midollo, il tuo sangue è freddo; tu non hai virtù visiva in cotesti occhi che sbarri.” (Atto III, scena IV).
Macbeth è letteralmente sconvolto dall’apparizione dello spettro di Banquo e lascia intuire di essere il mandante dell’omicidio, la qual cosa insospettisce Macduff che alla fine dell’opera guiderà un esercito per sconfiggere Macbeth.
“Via, maledetta macchia! Via, dico Una... due: ecco, allora è il momento di farlo. L'inferno è buio! Vergogna, mio signore, vergogna! un soldato che ha paura! Che ragione abbiamo di temere che qualcuno lo sappia, quando nessuno può chiamare la nostra potenza a renderne conto? Ma chi avrebbe mai pensato, che quel vecchio avesse dentro tanto sangue?” (Atto V, scena I). Anche Lady Macbeth è ossessionata dal senso di colpa per aver aiutato il marito ad eliminare Duncan. Lady Macbeth impazzisce dal rimorso e ogni notte si sveglia per cancellare il sangue dalle mani, un chiaro emblema della colpa che è condannata a sopportare per il resto dell’esistenza. Non reggerà al peso della colpa e sceglierà di suicidarsi.
"Le ambizioni umane sono tutte legittime tranne quelle per le quali si devono calpestare altre vite umane", dichiarò lo scrittore Joseph Conrad (1857-1924)
[I9]
[Es10] [E11].
Le ambizioni di Banquo sono molto più semplici e paradossali di quelle della coppia diabolica. Pur restando incuriosito dalle profezie delle streghe, è abbastanza riluttante nel ritenerle credibili.
Ha un’indole innocua, onesta e poco problematica, sceglie di non sfidare il proprio destino ed evita così di corrompersi moralmente. Essendosi prefisso di condurre una vita ortodossa, non lascia che delle forze esterne come le streghe, il destino e la cupidigia, interferiscano con i suoi principi: “Mio buon signore, perché trasalite, e sembra che abbiate paura di cose che suonano così belle? In nome del vero, siete creature della fantasia, o siete in realtà ciò che esteriormente sembrate? Voi salutate il mio nobile compagno con un titolo di onore ch'egli già possiede, e con sì alta predizione di nobile acquisto e di regale speranza, ch'egli ne sembra rapito fuor di sé: a me non parlate. Se voi potete penetrare con lo sguardo dentro i semi del tempo, e dire quale granello germoglierà e quale no, allora parlate a me, che non sollecito né temo i vostri favori e l'odio vostro” (Atto I, scena III).
Dunque Banquo non crede alle profezie delle streghe; il suo scetticismo impedisce al sortilegio di penetrargli nell’anima e quindi ne resta immune. Lo stesso non si può dire dei due protagonisti della tragedia.
4/15
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