Il termine totalitarismo è stato introdotto nel lessico politico da un intellettuale liberale, Giovanni Amendola, che in un articolo del maggio 1923 accusava Mussolini di voler costruire un "regime totalitario".
Secondo Amendola il carattere totalitario del progetto fascista consisteva non solo e non tanto nel conculcare i diritti dell'opposizione, quanto piuttosto nel negare la libertà di coscienza dei singoli individui.
Lo sforzo degli storici, dei sociologi e politologi, soprattutto americani, che hanno effettuato un'operazione di comparazione tra fascismo, nazismo e stalinismo, ha condotto a trovare dei tratti comuni nei diversi totalitarismi, fondati essenzialmente su sei elementi costitutivi
- Un'ideologia ufficiale rigida e totalizzante, di natura escatologica
- Un partito unico, portatore ed interprete di questa ideologia, guidato da un uomo, il dittatore
- Una polizia segreta notevolmente sviluppata
- Il monopolio statale dei mezzi di comunicazione
- Il controllo monopolistico di tutte le organizzazioni, politiche, sociali, culturali e, in particolare, economiche (di qui la creazione di un'economia pianificata dal centro)
- Il controllo ferreo delle forze armate
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E PER CHI VUOLE APPROFONDIRE...
Architettura ed arte nei totalitarismi
A)
A cura di Francesco Del Conte e Tiziana Contri
1928-1938
ARCHITETTURA MODERNA IN ITALIA
Le vicende architettoniche in Italia nel ventennio fascista sono molto complesse e lo stesso si può dire per quelle politiche. La questione ruota attorno al rapporto fra architettura razionale o moderna e identità del fascio, cioè al rapporto che l’architettura stabilisce con la politica. Le differenze più marcate si fanno sentire quando si mettono a confronto la nuova generazione di “assalto” (i giovani razionalisti, Terragni, Libera, Figini, Pollini) e la generazione più legata all’accademia, tacciata di passatismo e retorica dai primi, ma più saldamente prossima al potere politico.Ma al di là dei problemi legati al potere, sono anni in cui appare difficoltoso stabilire in modo univoco il significato dei termini “architettura razionale”, “architettura moderna”, “legame con la tradizione”, “spirito classico”, cioè i temi principali della ricerca più colta.
Quella fase dell’architettura razionalista in Italia chiamata dallo stesso Terragni “Periodo Squadrista” (1926-1931) è un momento significativo della ricerca italiana sul moderno. Al di là delle grandi contraddizioni, dei diversi modi di intendere il concetto di modernità, delle differenti concezioni del linguaggio architettonico si tratta di una fase in cui è concretizzata a pieno la volontà di unire tradizione classica e rinnovamento dell’architettura.
Si tratta di un periodo in cui qualcuno, in particolare il Gruppo 7, ha sentito di poter esprimere un’idea di architettura che superasse i limiti dell’individualità per approdare ad una dimensione universale, sulla base di un valore unificante come poteva essere quello dei principi di perfezione apollinea. La stessa fondazione del MIAR (Movimento Italiano Architettura Razionale) può essere la testimonianza di tale coesione di intenti che tagliava trasversalmente tutta l’Italia. Bisogna precisare, però, che nel ventennio fascista la realtà culturale architettonica era molto variegata; l’esperienza razionalista, per esempio, era solo una delle diverse voci presenti: razionalismo e modernità non coincidono. Molti architetti si cimentano sul problema del moderno senza tuttavia riconoscersi come razionalisti.
Una prima fase di elaborazione della ricerca sul moderno avviene a Torino, città che per alcuni anni ha mantenuto il ruolo di fulcro culturale per l’intera Italia. Riccardo Gualino, ricco e illuminato industriale, è il mecenate della cultura attorno al quale si riuniscono intellettuali di ogni parte del paese. Chessa, Casorati, Persico, Pagano, Levi Montalcini, Sartoris e altri ruotano in questo contesto aperto, antiprovinciale, con forti legami con Parigi. La pressione del Fascismo costringe Gualino nel ’30 all’esilio e Torino perde il ruolo di centro di ricerca. È Milano che a questo punto assume il ruolo di leader, in cui si agitano diverse tendenze. Posizioni che oscillano fra novecentismo e neoclassicismo, si esprimono nelle due riviste “900” e “Novecento” la prima diretta da Bontempelli con aspirazioni europeiste (il primo numero esce in francese); la seconda più incline alla tradizione. Sono protagonisti Muzio, De Finetti, Portaluppi e la nuova generazione che esce dal Politecnico fra il 26 e il 29, fra cui il Gruppo 7, Asnago e Vender, i Bbpr, Marescotti e Diotallevi. Nei primi anni trenta, quando l’architettura diventa un problema politico e concreto, Roma assume il ruolo di centro di produzione e di ricerca.
1928. Prima Esposizione di Architettura Razionale a Roma. Protagonisti nell’organizzazione della mostra sono Adalberto Libera e Pier Maria Bardi. La peculiarità di questo evento è quella di riuscire a riunire giovani architetti di provenienze diverse, da Torino (Sartoris, Chessa), da Milano (Gruppo 7, Baldessari), da Roma (Gruppo Urbanisti Romani e molti altri). Fra gli anziani, figurano Innocenzo Sabbatini, Mattè Tucco, Alberto Calza Bini (Presidente del Sindacato Nazionale Fascista Architetti e garante della mostra).Dei progetti presentati ricordiamo la Manifattura dei Tabacchi di Gino Capponi, l’Autorimessa di Figini-Pollini, la stazione Ferroviaria di Piccinato, l’Officina del Gas di Terragni e il Cinema da diecimila spettatori di Libera, che dal ’27 è entrato nel Gruppo 7. Libera si distingue per la sua ricerca architettonica e per le capacità organizzative tali da riuscire a conferire all’evento un respiro nazionale, ma in particolare una legittimità nazionale all’architettura razionalista. Si respira un forte clima di astrazione in questa esposizione ma senza l’irrigidimento su assunti funzionalisti. L’espressione del moderno passa attraverso l’immaginazione e l’afflato lirico. È evidente l’interesse per temi fortemente legati ad aspetti tecnologici e funzionali.Nasce in questa occasione il MIAR, organizzazione che riunisce tutti gli architetti razionalisti, un legante pratico ed ideologico. Il MIAR riscuote l’appoggio di Mussolini, lo stesso Piacentini suggerisce un nuovo appuntamento ma con temi prefissati e maggiore rapporto con la realtà. Il MIAR si configura come condizione per il possibile capovolgimento del potere professionale; si offre come strumento per la vittoria dell’architettura moderna in Italia.
1931. Il clima di polemica che, nella prima edizione dell’esposizione di Architettura Razionale, era solo sottinteso, nella seconda edizione si infiamma. La questione si sposta dalla ricerca pura per investire il campo della legittimazione politica. Il fronte della polemica con gli accademici è quello dell’ ”Architettura Arte di Stato”. Sono anni in cui per la maggior parte degli architetti italiani il problema estetico sconfina in quello politico, gli ideali della Rivoluzione Razionalista sembrano coincidere con i presupposti ideologici del fascismo, di moralità, ordine, razionalità, rinnovamento. Accanto a queste motivazioni, è sul piano professionale che si accende il contrasto e, se è vero che il MIAR riscuote l’appoggio di Mussolini, la tagliente polemica della Tavola degli Orrori presentata da Bardi scatena le reazioni della vecchia guardia.
La Seconda Esposizione si apre con la visita di Mussolini che dichiara: “Noi dobbiamo creare un’arte dei nostri tempi, da porre accanto al patrimonio storico...un'arte fascista...”. Inoltre è lo stesso Mussolini a finanziare la Galleria Bardi. Quest’approvazione costituisce una grande spinta alla collaborazione fra i giovani razionalisti nell’idea di affermare l’architettura moderna.
È prevedibile che in questa edizione siano esclusi i più anziani, Calza Bini, Trucco, Sabbatini e i traditori Larco e Rava che abbandonano il Gruppo 7 per dedicarsi a temi più prossimi alla mediterraneità, ad un purismo meno intransigente (testimoniando quanto sia irrealizzato quel superamento dell’individualità nell’architettura da essi stessi professato). Sono presenti questa volta Aschieri e Giuseppe Pagano.Pagano fra il ’30 e il ’32 collabora con Edoardo Persico a “La Casa Bella”. Nel ’32 Pagano ne diviene direttore. Nel ’33 opera un restyling della rivista che si chiamerà “Casabella”. Il ruolo di Pagano dunque è fondamentale per la diffusione del Razionalismo, infatti “La Casa Bella” diviene in quegli anni la cassa di risonanza delle ricerche dei giovani architetti italiani.
Bardi scrive nel frattempo l’articolo “Rapporto sull’architettura (per Mussolini)” in cui pone il problema dell’arte di Stato, dell’architettura fascista. È superato il problema dello stile nazionale della fine dell’800 per cui erano stati recuperati i linguaggi del rinascimento fiorentino e del cinquecento romano. Lo stile doveva, dunque, esprimere un contenuto politico, l’idea fascista. Ricordiamo che lo stesso Mussolini definiva il Fascio come “la casa di vetro”, simbolo di trasparenza, modernità e moralità. Non è un caso che la prima ipotesi della Casa de Fascio di Terragni a Como sia proprio un edificio in vetro.Inoltre Bardi presenta il collage degli Orrori in cui sono inclusi edifici di Piacentini. La reazione della vecchia generazione, quella che detiene il potere e il controllo della professione, è messa in atto dal Sindacato Nazionale degli Architetti che toglie il suo appoggio al MIAR. È l’occasione in cui emergono i contrasti e si consuma il tradimento degli ideali della Rivoluzione e del sogno della Ragione. Bardi e Libera vengono accusati di aver trascinato il MIAR in una polemica personale. Il Movimento viene sciolto e si costituisce il RAMI (Raggruppamento Architettura Moderna Italiana) ad opera degli esclusi fra cui Larco, Rava, Mario De Renzi.
Si precisano le posizioni contrastanti: c’è chi non rompe con Piacentini per il ruolo di potere che egli incarna; chi si schiera con Pagano, in una equilibrata opposizione; chi, forte delle proprie capacità professionali e della propria autonomia, resta con Bardi e collabora alla rivista “Quadrante” che viene fondata nel ’33 e che raccoglie i razionalisti più estremi.Dal ’31 in poi Razionalismo e Fascismo inizieranno a percorrere strade divergenti. Se fino alla metà dei trenta ogni espressione dello Spirito, secondo Gentile, confluiva nello Stato, con Roma capitale di un Impero (1936, la presa di Addis Abeba) il problema estetico si sposta sull’Arte di Regime. I temi assumono una connotazione propagandistica con una aspirazione di eternità. Se Fascismo e Futurismo condividevano radici comuni, l’architettura Moderna, con presupposti ideologici tutt’altro che millenaristi, non trova più posto nella seconda stagione del regime.
Tornando alla fase cruciale del razionalismo italiano, con l’inizio degli anni trenta, si impone il problema della definizione del linguaggio dell’architettura fascista:Per Piacentini si tratta di una sorta di comune denominatore fra le scuole, una tattica di mediazione, che però si libera di quel classicismo improbabile e ormai svuotato di senso che aveva elaborato per il progetto del centro di Brescia (1927-28). In seguito la questione si sposterà su un terreno più concreto, di utilitarismo e sulla necessità di rappresentazione del potere. Dobbiamo ricordare che Piacentini controlla le più importanti operazioni urbanistiche in quegli anni e, da non sottovalutare, tutte le principali e maggiori occasioni dell’architettura. È lui che diviene arbitro nei concorsi e nei processi che porteranno alla definizione del cosiddetto stile Littorio.
Per il Gruppo 7 lo stile nazionale deve essere espressione della continuità fra tradizione e Spirito Nuovo, fondandosi su peculiarità classiche, non formali ma basate sulla comprensione delle ragioni del classico in termini di geometria, ritmo, proporzioni armoniche. Tuttavia già si stempera la vocazione di estremo internazionalismo degli esordi del Gruppo 7, con l’affermazione che non si può escludere in senso assoluto ed ideologico il concetto di simmetria, come accade nelle esperienze del funzionalismo olandese e tedesco. Rava, l’autore dei testi del Gruppo 7, sostiene che il Nuovo Spirito Ellenico deve confrontarsi con l’Europa. In altri termini, l’internazionalismo è la capacità di un’architettura a superare i confini del popolo che la crea.
Per Pagano la questione si fa più complessa. È interprete di quella spinta ideologica che viene da un’Italia che tenta di liberarsi dei retaggi antiquati e retrogradi. È interprete delle istanze di moralità della rivoluzione fascista. Per Pagano l’architettura è espressione della natura politica e sociale dello Stato. È “antiretorica, anonima, corrente, economica, chiara”. Questo carattere sociale è il sottinteso ponte che lega Pagano a Piacentini. Se il carattere di estremo elitarismo rende sempre meno accettabile la ricerca del gruppo che ruota attorno a “Quadrante” da parte del potere centrale, lo stesso Pagano, che non può non riconoscere il valore delle architetture di Quadrante, ma non può condividerne la purezza intransigente e la presunzione che l’architetto sia depositario dell’idea che regge la realtà. Le ricerche di Pagano aprono la strada al populismo neorealista del dopoguerra.
Città Universitaria, Roma (1932-35)
Marcello Piacentini (1881-1960) è incaricato di redigere il piano del nuovo insediamento che prevede una struttura impostata su due assi ortogonali principali nella cui intersezione si apre una piazza che ha le dimensioni di piazza Navona. Al centro è collocata la scultura di Arturo Martini che rappresenta la dea Minerva. Lo schema è quello del castro romano ad assi ortogonali e “foro” in posizione centrale, con un portale d’ingresso principale, una sorta di filtro pilastrato, progettato da Foschini. L’edificio posto al centro, dove si interrompe l’asse principale, è progettato da Piacentini ed è il Rettorato, edificio rappresentativo rivestito in travertino. I lati corti della piazza vedono fronteggiarsi l’edificio di Matematica di Giò Ponti e quello di Geologia e Mineralogia di Michelucci. Gli altri edifici sono opere di Aschieri, Pagano, Minnucci, Capponi, Gaetano Rapisaldi, fra i giovani Giorgio Calza Bini, Saverio Muratori, Francesco Fariello.
Sono chiamati per questa operazione architetti di una generazione omogenea e alcuni giovanissimi, saltando di netto la generazione dei razionalisti più intransigenti. Sono scelti gli esponenti dei principali poteri locali, da Firenze Michelucci, vincitore del concorso della stazione (‘32), da Milano Ponti, direttore di “Domus”, Pagano direttore di “Casabella”, Minnucci esponente del MIAR. Piacentini dispone una sorta di regolamento edilizio, ponendo così gli elementi base per quello che sarà chiamato stile Littorio. L’architettura è volutamente ridotta ad elementi essenziali con poche varianti, l’uso di finestre rettangolari, l’uso di materiali quali il mattone, il travertino e l’intonaco rossiccio conferiscono all’insieme un forte carattere di unitarietà. Ciascuno dei progettisti rinuncia a qualcosa della propria espressione individuale e le architetture si incentrano su un lavoro di organizzazione volumetrica. L’operazione sembra esprimere un’interessante esperimento di anonimato, cosa che accende l’entusiasmo di Pagano. Tuttavia in modo diffuso le architetture tendono ad esprimere quel gusto “novecentista”, un po’ metafisico che si diffonde in questa fase della produzione italiana in tutto il paese. Paradossalmente è negli edifici marginali o nelle loro parti secondarie che si ritrovano gli episodi più originali. I progetti per la Città Universitaria sono quasi tutti impostati sul tipo a corte che ripropone la natura urbana dell’operazione.
Giovanni Michelucci, Istituto di Geologia e Mineralogia, Roma (1932-35)
L’edificio di Michelucci (1891-1990) è impostato sull’idea del blocco con una corte centrale rettangolare, sulla quale affacciano i corridoi e gli spazi secondari. Questa configurazione tradisce la volontà dell’edificio di mostrarsi come facciata, come quinta che delimita la piazza, ma contrasta anche con il valore doppio dell’edificio dovuto ai due ingressi, ai due corpi scale, alle due facoltà ospitate. La simmetria estrema denunciata in facciata è contraddetta dalla collocazione dell’aula magna in uno dei bracci corti dell’edificio, quello di sinistra. L’elemento caratterizzante e innovativo è il disegno della facciata principale. Uno dei pochi edifici rivestiti in travertino. È caratterizzato da una volontà grafica tanto semplificata dove la facciata è trattata come un foglio, un piano bidimensionale. Gli unici sporti sono rappresentati dall’esile cornice di chiusura e dagli essenziali davanzali delle finestre. Alle estremità si aprono invece grandi solchi, uno svuotamento a tutta altezza dove sono collocati gli ingressi e le logge. Nonostante il forte carattere di astrazione del linguaggio di Michelucci, l’edificio mostra una certa forza monumentale esaltata anche dalle due gradinate che portano agli ingressi.
Giò Ponti, Istituto di Matematica, Roma, (1932-35)
L’edificio posto frontalmente è l’Istituto di Matematica. Ponti (1891-79) imposta il progetto su una struttura a ferro di cavallo, con una corte semicircolare. La simmetria chiaramente denunciata in facciata è confermata dalla posizione assiale dell’aula magna. Quest’ultima è l’elemento caratterizzante del progetto ed è collocata sul retro. Si presenta come un blocco aggiunto, incastrato nella struttura anulare dell’edificio. Più volte è stato riconosciuto un valore costruttivista alla parte posteriore di questo edificio, dove è denunciata in modo chiaro l’idea di assemblaggio di elementi autonomamente definiti. Dal punto di vista del linguaggio la parte secondaria, cioè quella intonacata, si esprime con una diretta trasposizione sulle facciate del contenuto funzionale interno, comunicando una più libera adesione alle correnti internazionaliste. Questo atteggiamento entra in leggera contraddizione col trattamento degli spazi più rappresentativi, la sala di ingresso per esempio, che mostra una più marcata adesione al clima “metafisico, novecentista”.In facciata, quella principale, ridotta nello sviluppo orizzontale rispetto al progetto di Michelucci, vi è lo stesso trattamento dell’impaginato con una volontà di astrazione, la cui monumentalità è affidata al grande segno del portale di ingresso.
Giuseppe Pagano, Istituto di Fisica, Roma (1932-35)
Pagano (1896-1945) propone, da un certo punto di vista, il progetto più interessante. L’impianto a corte presenta un carattere profondamente differente dallo schema del blocco urbano, unitariamente definito. L’edificio è costituito dalla giustapposizione di parti, di volumi che attraverso la loro connessione generano spazi chiusi. La corte intesa come risultato dell’organizzazione volumetrica, e non come schema assunto a priori, fa saltare l’idea classica del vuoto governato da assi di simmetria rispetto al quale gli ambienti si dispongono e tutto l’edificio si struttura. Diversamente dall’edificio gemello, l’Istituto di Chimica di Aschieri e da quello vicino di Igiene di Foschini, l’ingresso è posto in posizione defilata, tangenziale, assecondando la logica distributiva interna. Non vi sono riferimenti a nessun monumentalismo, né ad elementi della classicità. L’ingresso più rappresentativo è segnato esclusivamente dalla pensilina arrotondata e dal semplice rivestimento in pietra. E’ già riconoscibile la ricerca di Pagano orientata sempre più intensamente all’anonimato, senza che peraltro l’edificio perda di forza e identità. I contenuti anti-retorici, che sostanziano la futura lotta di Pagano, sono tutti espressi, ed è forte la connotazione razionale, la volontà di semplificazione, tuttavia senza ricadere in questioni di tipo stilistico dei vari movimenti che si agitavano in quel momento. L’attenzione si concentra sulla definizione raffinata dei dettagli costruttivi e degli elementi funzionali dell’architettura.
Giuseppe Capponi, Istituto di Botanica e Chimica farmaceutica, Roma (1932-35)
L’edificio che si pone in modo completamente estraneo rispetto all’omogeneità degli interventi è l’Istituto di Botanica di Capponi (1893-1936). È impostato su uno schema lineare a tenaglia, leggermente curvo con al centro il nucleo di ingresso e la distribuzione verticale. La scala assume dunque un ruolo compositivo preminente, infatti rappresenta l’occasione per articolare in modo verticale la parte centrale dell’edificio dove si addensano le superfici vetrate. L’asse di simmetria che divide “l’arco” in cui si sviluppa l’edificio, organizza sul retro (la parte convessa) i blocchi gemelli delle sale principali. Essi sono svuotati con angoli interamente di vetro. I corridoi invece attraversano orizzontalmente l’edificio fasciandolo con finestre a nastro. Le grandi trasparenze, l’uso di estese superfici vetrate che offrono all’esterno l’interiorità dell’edificio, l’uso di un linguaggio modernista, la struttura - seppur simmetrica – tutt’altro che tradizionale, l’esplicitazione del telaio in calcestruzzo rappresentato da colonne circolari, fanno di quest’opera il progetto più avanguardista della Città Universitaria.
Ricerca e realtà professionale
Il 1933 è l’anno in cui comincia la stagione dei concorsi. Due motivi sottendono l’operazione: la tutela della figura dell’architetto, il suo sviluppo professionale e il controllo del rapporto fra Stato e Architettura, in particolare la definizione del linguaggio proprio dello Stato Fascista.I principali concorsi riguardano la stazione S. Maria Novella di Firenze (’32); gli edifici postali a Roma (’33); le città pontine; il Palazzo Littorio (1934); l’E42 (1936).
Nel volume di Agnoldomenico Pica, “Nuova architettura italiana”, pubblicato in occasione della mostra triennale di Milano del 1936, è evidente la ricchezza e la complessità delle ricerche degli anni trenta. Il libro inizia con la Città Universitaria, poi mostra centinaia di edifici (Case del Fascio, Case della Gioventù, colonie marittime, stazioni, uffici postali).Compaiono anche i nuovi edifici realizzati a Roma per il concorso del 1933. In chiusura, Pica tratta della stazione di Santa Maria Novella di Firenze, del gruppo di Michelucci (1932 – 1934) e di Sabaudia progettata da Piccinato, con Cancelletti, Montuori e Scalpelli (1933 – 1934). La prima è la sintesi tra tradizione e moderno, di cui il regime si vuole fare interprete, per l’equilibrio dinamico tra forme e materiali; la seconda rappresenta la nuova città fascista, nata per “redimere” la terra.
Va aggiunto un dato fondamentale: sono tante le occasione per l’architettura italiana di esprimersi nei lavori pubblici. Ci sono grandi e piccole occasioni. Soltanto quelle piccole sono le occasioni in cui è lasciato spazio alla ricerca dell’architettura moderna, gli episodi marginali e puntuali, circoscritti. Le operazioni di ristrutturazione, i grandi interventi urbani restano nelle mani dei cauti e passatisti architetti che meglio soggiacciono alle necessità magniloquenti della propaganda del fascio. Questo importante elemento è ignorato nella mostra “Galleria dell’architettura italiana” di Pica del ’36 che tenta di storicizzare le vicende degli ultimi tre anni. È offerto in questa occasione un resoconto di tutte le ricerche svolte in Italia, svicolando tutto quel professionismo che tuttavia ha modificato il volto della città.
Di questi anni vanno ricordati altri importanti appuntamenti per l’architettura italiana. La V triennale di Milano del ’33.
La nuova generazione di architetti si confronta con il tema dell’abitazione. Ricordiamo la Casa sul lago di Terragni, la casa studio di Moretti, la casa per artista di Figini e Pollini. Si tratta di architetture che subiscono una forte critica da parte del potere e da Mussolini stesso, per il mancato realismo e la difficile comprensibilità da parte del vasto pubblico dei contenuti di queste ricerche. Infatti i progetti esprimono una qualità adatta all’alta borghesia, ricca e raffinata. Si presentano come sofisticati esercizi compositivi, risultato di una forte astrazione del linguaggio che non coinvolge le masse.
La casa d’acciaio di Pagano e Daneri, invece, è tra i pochi esperimenti incentrato su questioni concrete e produttive dell’abitazione. Proprio Pagano e Persico si fanno espressione della critica al razionalismo perché vedono nell’astrazione il pericolo di una ricaduta nel problema dello stile.
La VI triennale di Milano del ’36 è organizzata proprio da Persico e Pagano. Essi si fanno portavoce di posizioni differenti ma complementari. Persico, che muore nel ’35, vede il classicismo come aspirazione ad un rinascimento europeo, disconoscendo il rapporto fra classico e fascismo, mentre Pagano porta all’estrema conseguenza della sua ricerca sull’anonimato con una sezione intitolata “Funzionalità della casa rurale”. Pagano indaga i fondamenti logici dell’architettura rurale, l’estrema razionalità del linguaggio e dei contenuti dell’edilizia spontanea, ravvisandone un’indiretta modernità. Riconosce l’anonimato più estremo, il valore collettivo, morale, la sostanza funzionale del linguaggio. Nell’architettura spontanea vede la strada per il superamento del problema dello stile. Con questa indagine, di tipo fotografico, Pagano anticipa tutte le ricerche su questo tema che si svolgeranno ad opera di diversi architetti nei decenni successivi in tutta l’Europa.
Le poste di Roma (1933 – 1935)
L’idea di potenziare l’edilizia postale di Roma mediante la costruzione di quattro nuovi edifici decentrati era stata lanciata dal Ministro delle Comunicazioni Costanzo Ciano, che ne attribuiva la paternità a Mussolini stesso.Il programma di sviluppo del sistema nazionale delle comunicazioni postali, telefoniche e telegrafiche era stato impostato nel 1925, con l’istituzione del Ministero delle Comunicazioni e con la creazione dell’Azienda Autonoma delle poste e dei telegrafi.
In quel periodo era stato messo in moto un nuovo piano per il rinnovamento di Roma, la cui gestione era assunta dal Governo, direttamente o attraverso il Governatorato. Il decentramento dei servizi era un obiettivo primario: le aree scelte sono dislocate nell’immediato intorno del centro storico, in zone di periferia in espansione.Strade dritte avrebbero dovuto collegare i principali monumenti del lontano passato con quelli che Mussolini stesso intendeva costruire con la consulenza dell’architetto Marcello Piacentini. La mescolanza di teatralità, funzionalismo e propaganda per questo progetto di Roma capitale richiamava i piani di Haussmann per Parigi o quelli barocchi dei papi.
Dopo il 1929 l’esigenza di attenuare gli effetti della crisi economica sull’industria delle costruzioni e di contenere la crescente disoccupazione imponeva di non diminuire il programma di lavori pubblici varato dal Governo. Quindi, dalla politica della casa e delle strade (prevalente negli anni venti) si passava alla politica degli edifici pubblici, accelerando il potenziamento delle comunicazioni, imperniato sulla costruzione di nuove stazioni ferroviarie e palazzi postali.La scelta del concorso nazionale per la progettazione degli edifici di Roma costituiva una eccezione alla prassi seguita per la costruzione dei palazzi postali. Nei sei anni precedenti i progetti erano stati redatti dall’Ufficio V – Costruzioni edilizie e stradali del Servizio lavori e costruzioni del Ministero delle Comunicazioni, tranne che nel caso di Brescia e pochi altri.
Gli obiettivi del concorso sono molteplici: controllare l’inserimento della nuova generazione professionale nel campo della progettazione e delle costruzioni; escludere i laureati in Ingegneria della progettazione architettonica; riservare all’amministrazione e ai vertici le scelte qualitative.Il concorso viene bandito il 5 gennaio 1933, con scadenza 5 giugno 1933. Al bando sono allegati schemi grafici, che suggeriscono di sviluppare una soluzione centripeta e simmetrica (propria degli edifici pubblici) e avanzano proposte per la risoluzione degli aspetti funzionali.Pervengono 136 progetti, tra i quali risultano vincitori: Libera e De Renzi, per via Marmorata; Ridolfi per piazza Bologna; Samonà per l’Appio, via Taranto; Titta per piazza Mazzini.Le proposte tradiscono le preoccupazioni degli architetti di rientrare nei limiti di tradizionalità, ma la scelta dei vincitori era caduta, in tre casi su quattro, sui progetti indiscutibilmente più nuovi e qualificati.
I quattro edifici sono costruiti con struttura portante in cemento armato inglobato dentro un sistema di pareti in muratura piena; esternamente il rivestimento è in travertino nelle parti principali, in cortina di mattoni o intonaco in quelle secondarie; internamente è in marmo nel salone per il pubblico, in grès per gli altri ambienti.L’elemento costruttivo tipico dell’architettura italiana degli anni trenta è la parete muraria innervata con telaio in calcestruzzo e rivestita di pietra o con mattoni.Rispetto al modello edilizio dell’architettura anni venti, basato su una struttura mista, ora il cemento costituisce una vera ossatura portante a scheletro indipendente.
Adalberto Libera e Mario De Renzi, Palazzo delle Poste, Roma (1933)
Nel piano regolatore, l’ampio lotto scelto per l’ubicazione dell’edificio era destinato a parco pubblico, da sistemare contemporaneamente alla costruzione delle Poste.L’edificio sorge isolato nell’area compresa tra l’Aventino e le Mura Aureliane e costituisce il terzo polo nel complesso monumentale di cui fanno parte la Porta San Paolo e la Piramide di Caio Cestio. Il ruolo urbano assunto da questo edificio è molto preciso ed entra così in un piccolo sistema di elementi monumentali in un dialogo che supera le distanze millenarie in una relazione senza subordinazioni. Si pone dunque come oggetto isolato da contemplare nella sua monumentalità.
L’organismo è composto da un volume massiccio a forma di C, che ospita al piano terreno i vari servizi postali; ai piani superiori gli uffici nelle ali e il grande salone degli apparati telegrafici nel corpo centrale. Il salone per il pubblico si percepisce immediatamente, in seno alla C, come volume autonomo e centro della composizione.La soluzione planimetrica ricalca quasi esattamente lo schema distributivo allegato al bando, in cui è specificato – ad esempio – che l’edificio dovesse essere arretrato di 20 metri rispetto alla strada.La composizione è semplice, anche se da un lato l’edificio è impostato sullo schema tradizionale dell’organismo a corte centrale, in cui le singole parti conservano i caratteri degli elementi fondamentali dell’architettura classica, mentre dall’altro l’impianto a corte è dimezzato, la facciata può essere considerata una sezione.Il Palazzo dunque resta sospeso tra la versione rimodernata del tradizionale palazzo civico e la macchina postale monumentalizzata. Non è un caso, infatti che sia abbastanza diretta la relazione formale con la poetica futurista.
Il primo progetto viene modificato in una riunione che si svolse nel mese di luglio del 1933, per mettere a punto definitivamente l’organismo distributivo e funzionale:il salone al pubblico viene aperto verso il portico con una vetrata a tutto campo; l’accesso principale diventa assiale e diretto nel salone; un’ampia gradonata centrale, larga oltre 25 metri, con due vasche d’acqua laterali semplifica l’esterno (dopo un breve periodo di funzionamento le vasche furono trasformate in aiuole). Le modifiche successive sono indotte dalla verifica diretta sull’edificio in dimensioni reali.Le facciate appaiono massicce pur con inaspettata leggerezza e fragilità rivelata dal disegno delle aperture (le critiche rivolte a quest’opera si incentrano proprio su questo aspetto): fronte principale è contraddistinto da forti articolazioni volumetriche; prospetto posteriore presenta aperture quadrate (circa 44 cm di lato), realizzate con superfici alveolari in pietracemento (è la prima realizzazione che adotta questo sistema); prospetto laterale è il prototipo di facciata di palazzo, in cui le potenzialità innovative della struttura in cemento armato sono utilizzate in forma indiretta.
La struttura è in cemento armato, con tamponatura “alla romana” (tufo con doppi ricorsi di mattoni ogni 80 cm), fatta eccezione per la struttura metallica prevista, in sede di esecutivo, per il salone per il pubblico. Si tratta di un’intelaiatura portante disposta secondo una maglia regolare a moduli quadrati con lato pari a 2,15 metri.La tecnologia del cemento armato influisce sugli inediti motivi di facciata e sulla configurazione degli interni: Libera era considerato in Italia, all’inizio degli anni trenta, un fine conoscitore della nuova tecnica.Per il rivestimento delle facciate, Libera voleva impiegare un materiale assimilabile al marmo, ma si dovette accontentare del travertino delle Cave, poi stuccato a cemento bianco per ridurne la porosità; per le vasche esterne, le scale e il portico Libera aveva previsto granito bianco lucidato, invece il portico venne realizzato in porfido violaceo di Predazzo.
Il rivestimento concorre a determinare il carattere figurativo astratto dei motivi di facciata. Richiamando l’apparecchio murario a grandi conci, il paramento in pietra evoca una immagine di solidità, permanenza e monumentalità: è la finitura corrente dell’opera pubblica.L’immagine evoca l’intreccio di tradizione e modernità: all’esterno l’effetto è affidato alla composizione volumetrica e ai plastici trafori delle pareti; all’interno l’effetto è affidato alla luce e ai materiali, nonostante Libera abbia dovuto rinunciare ai marmi e ai colori delle pareti previsti dal progetto.Nel 1934 sussistevano ancora incertezze sulla modalità di realizzazione del salone per il pubblico, che aveva perso le proporzioni iniziali per acquisire una sua autonomia volumetrica. La stabilità è garantita al moderno lucernario dall’impiego di profilati collegati a spirale.La costruzione dell’edificio cominciò nel mese di ottobre del 1933; i lavori furono ultimati verso febbraio 1935, con rallentamenti provocati da cause tecniche, derivanti soprattutto da incertezza tra tecniche e procedure proprie delle costruzioni in muratura ed esigenze nuove nate dall’uso del cemento armato.
Mario Ridolfi, Palazzo delle Poste, Roma (1933)
Alla soluzione studiata per il concorso, composta da tre corpi, Ridolfi (1904-84) sostituisce nel 1933 un nuovo progetto, più regolare, più compiuto e ardito. La linea curva chiude la forma e le conferisce regolarità.L’edificio si contraddistingue anche per la sua natura urbana: risolve la piazza e l’intorno a livello urbanistico ponendosi come elemento serpentino che riesce a bordare il margine impreciso della piazza.La struttura portante è costituita da uno scheletro di cemento armato che assume conformazione diversa nella parte centrale dell’edificio e nelle due ali laterali, separate da giunti in corrispondenza delle scale. L’ossatura non compare, se non nelle pensiline, sul fronte e nella tettoia sul retro.La parete esterna è concepita come ininterrotta e continua superficie, dotata dell’omogeneità della tradizionale muratura e costituente un elemento omogeneo e unitario, che non si inserisce nell’intelaiatura. Le bucature seguono un impaginato ordinario.
Le pensiline formalmente sono lame sottili, che danno risalto plastico alla concavità centrale e all’edificio nel suo insieme; simbolicamente, contribuiscono a dare alla facciata l’aspetto del palazzo civico, senza toni enfatici e retorici. In corrispondenza delle pensiline affiora il dispositivo strutturale interno e la parete mostra il suo carattere.Sul retro, era previsto che la parte centrale del prospetto, compresi i raccordi cilindrici delle scale, fosse risolta mettendo in evidenza la stessa trama del telaio portante. In realtà, fu adottata una soluzione che prevedeva una vetrata a telaio metallico fissata all’esterno della struttura e fiancheggiata dai due raccordi cilindrici delle scale in vetrocemento.
Il rivestimento esterno, messo a punto da Ridolfi nel 1934, è costituito da liste di pietra da taglio (travertino di Magliano Toscano tagliato per falda e controfalda; spessore 5 cm; altezza complessiva 10,7 cm, compresa la scanalatura) di lunghezza variabile, affinché i giunti verticali, a contatto e sfalsati, risultino invisibili e lascino prevalere la linea orizzontale. Le liste sono ancorate con grappe di ferro zincato e il riempimento di calcestruzzo è colato nell’intercapedine ogni tre file. Le difficoltà esecutive e i conseguenti ritardi nella realizzazione non riguardano solo la struttura di cemento armato e il rivestimento di travertino, ma anche tutte le altre finiture: Ridolfi, una volta delineata la forma dell’edificio, attraverso le sue parti, deve definire la peculiare fisionomia di ciascuna di queste. In particolare, Ridolfi si sofferma sul serramento, che “è il termine di collegamento dell’esterno con l’interno; appare nell’interno…, appare nell’esterno” (G. Ponti, Stile di Ridolfi, in “Stile”, n. 25, gennaio 1943).L’esigenza di disegnare tutto è connaturata con l’idealistica istanza che ispira il lavoro di Ridolfi: procedere al rinnovamento del repertorio edilizio tradizionale conservandone il carattere artigianale. Nel 1976 sono state smantellate tutte le finiture interne del Palazzo di piazza Bologna.
Giuseppe Samonà, Palazzo delle Poste, Roma (1933)
Il lotto è di piccole dimensioni e ha forma irregolare. L’idea generale esprime un forte carattere urbano attraverso la ricomposizione dell’isolato urbano, del margine; l’indagine si concentra sul tema dell’angolo risolto con uno svuotamento. Se la relazione con la città è attenta, nel rispetto degli allineamenti e dei profili, l’edificio mostra la sua estraneità, o meglio, autonomia, rispetto al contesto in termini di linguaggio architettonico. L’evidente riferimento alla poetica funzionalista, chiarissima in uno dei disegni di studio, è rintracciabile nell’idea della connessione di volumi autonomi dove il complesso appare articolato in più blocchi. L’edificio inoltre presenta la volontà di staccare il blocco dal suolo, attraverso uno svuotamento, il combio di materiale, dove la quota zero, l’interno, è trattata con una pietra scura, come anche i pilastri che permettono l’apertura della grandi vetrate. Il blocco superoiore è in travertino, è bianco, con linguaggio asciugato, ridotto a pochi segni, sospeso, alleggerito. L’articolazione per parti è denunciata anche dalla scelta di distinguere le funzioni (quella legata al pubblico e ai servizi) ma anche la volontà di dare all’edificio un avanti e un retro, una parte civile (in travertino) e una meno nobile (in mattoni).
La struttura portante, quindi, risulta costituita dallo scheletro dei corpi perimetrali, impostato sulla platea e dallo scheletro del padiglione centrale, con fondazione indipendente a plinti isolati. Il primo progetto invadeva il marciapiede oltre un terzo della sua larghezza (limite massimo consentito per gli edifici pubblici). Samonà (1898-1983) modificò la scala d’accesso, optando per una scala a due rampe parallela alla facciata: l’elemento è volutamente simbolico.I disegni esecutivi dei prospetti sono datati 1934: si tratta di un lavoro di semplificazione e ripropozionamento, che conferisce alla facciata un registro aulico e classico.Nel rivestimento, completamente in pietra, si rispecchia il carattere civico dell’edificio: è in travertino l’esterno; marmi diversi sono stati scelti per lo zoccolo del basamento, la scala esterna su via Taranto, i pilastri esterni ed interni del salone per il pubblico.Le lastre lapidee sono bloccate di costa nel lato superiore con due grappe ad angolo retto in ferro tondo e poi appoggiate sulla lastra sottostante. Il sistema di ancoraggio si è rivelato efficace.Il salone per il pubblico si presenta molto elegante ed essenziale (già nel 1935 si renderanno necessari interventi di completamento per una migliore vivibilità dello spazio del salone): in una geometrica cavità delineata dal soffitto, dal pavimento e dalle pareti sono immersi i pilastri, rivestiti di marmo nero; il bancone ininterrotto, la parete curva per schermare la sala di scrittura; le lampade sospese. Tra il 1970 e il 1973 il salone sarà trasformato in un ordinario e anonimo locale pubblico.
Luigi Moretti, Casa delle Armi, Roma (1933-37)
Un altro importante evento di iniziativa pubblica è la costruzione del Foro Italico alle pendici del Monte Mario. Area destinata ad attività sportive ma anche a scenario per occasioni celebrative del regime.Nei primi anni trenta Moretti (1907-73) conosce Renato Ricci, presidente dell’Opera Nazionale Balilla e presidente del consorzio produttori del marmo di Carrara, elemento non marginale nella storia del Foro Italico. Il piano per l’area era stato redatto da Enrico Del Debbio nel ’28, poi ripreso e modificato da Moretti fino al ’41, in quanto divine direttore dell’Ufficio Tecnico dell’O.N.B.Moretti progetta una serie di interventi nell’area del Foro di cui ricordiamo, fra quelli realizzati, il piazzale dell’Impero e la Palestra del Duce. Tuttavia il più importante è la Casa delle Armi.L’edificio presenta volutamente un forte carattere urbano, si sviluppa su uno schema ad L ponendosi come chiusura del margine sud dell’area sportiva. Infatti il braccio con direzione est-ovest rappresenta una diga silenziosa e al tempo stesso magniloquente al disordine urbano e costituisce simbolicamente una porta d’accesso all’asse che attraversa il foro dalla direzione sud.L’idea della L è funzionale alla definizione di una piazza rivolta verso il centro dell’insediamento. La struttura dell’edificio è costituita dalla connessione di due blocchi ortogonali. Si tratta di due corpi che presentano una forte unità formale e al tempo stesso una concezione fondamentalmente differente. Sono collegati da un aereo sistema di ballatoi. Il fulcro della connessione è rappresentato dal corpo ovale. Quello che viene utilizzato da Moretti nella fase prima della guerra è il procedimento paratattico, che consiste nell’operare un assemblaggio di elementi giustapposti, la cui connessione dà luogo ad unità senza gerarchie.
Il corpo più snello è destinato alle attività di amministrazione, soggiorno e biblioteca. Il volume ovale è destinato all’ingresso privato degli atleti. Il blocco più ampio invece ospita la palestra della scherma e gli spogliatoi. La sala può accogliere fino a 160 atleti contemporaneamente e misura 25 metri x 45.Il blocco della biblioteca è costituito da un ampio salone a doppia altezza e da una galleria pilastrata che attraversa il corpo di fabbrica in tutta la sua lunghezza e si affaccia sul salone. L’ingrasso è collocato in testata dove si apre una profonda incisione nel volume. Vi è una accurata attenzione nel controllo dei livelli, che danno luogo a trasparenze fra ambienti su quote sfalsate. La questione centrale nella composizione di questo blocco è l’idea della “seguenza di spazi”, una concatenazione di luoghi e funzioni che lo sguardo e i percorsi attraversano interamente. L’atrio di ingresso che distribuisce alla sala, la grande scala elicoidale, la galleria, l’ambiente ovale, rappresentano gli episodi architettonici del percorso innestato nel volume, su un’asse, o più in generale, in una concezione prospettica. Il volume presenta una sostanziale chiusura verso sud, mentre sul fianco della galleria, a nord, si apre una grande vetrata a tutto campo. Il salone è illuminato, oltre che dalla luce che filtra fra i pilastri marmorei della galleria, da un grande lucernario posto sul tetto.
Il blocco della palestra risponde ad una logica strutturale molto diversa pur utilizzando gli stessi “ingredienti”, è costituito da due luoghi, l’aula della scherma e la galleria dei servizi, posta sul retro. I due spazi a differenza del corpo della biblioteca non comunicano, sono indipendenti. L’aula in questo caso presenta solo un asse di simmetria che ha valore geometrico, ma non spaziale. Scompare l’idea della direzionalità, della concatenazione di spazi. Prevale la concezione unitaria e omogenea in questo luogo. Le volte di copertura, il ballatoio a sbalzo, le finestre marcano il senso dell’orizzontale.Il problema della luce per Moretti si offre come occasione per soluzioni di grande invenzione poetica, dove la struttura, la forma e la funzionalità sono contemporaneamente asservite. Elemento caratterizzante è il sistema delle semi-volte che si articolano all’interno del volume senza che siano denunciate all’esterno. La linea curva torna anche nella parte superiore del telaio a tutta altezza del settore dei servizi che sostiene la spinta della volta dell’aula e il lucernario che corre per la lunghezza del blocco.In tutto l’edificio l’involucro è segnato da incisioni al livello del basamento, nell’idea dichiaratamente michelangiolesca di sospendere i pesi in alto. I paramenti esterni sono completamente rivestiti in marmo di Carrara statuario venato, caso unico dal tempo dell’Impero romano. Tutti gli spigoli, gli angoli sono arrotondati, ammorbiditi. Ogni lastra di marmo e tutti i punti singolari sono accuratamente disegnati per un controllo assoluto del risultato. Vi è l’estrema volontà di conferire all’edificio un carattere di monoliticità, unitarietà. La grande superficie vetrata del blocco della biblioteca è posta sul filo della facciata, in perfetta continuità col volume dell’edificio.Solo le incisioni delle finestre orizzontali nel luogo dell’attacco a terra si mostrano come netti tagli nel volume. Un altro tema costante nel Moretti di questi anni è la presenza in strutture di grande rigore geometrico, formale di elementi di forte valore plastico ed espressivo, come appunto le scale elicoidali.
Come scrive Moretti, l’edificio è “in ogni suo punto realtà e rappresentazione […] è un fatto di ordine tecnico e funzionale, che sottostà cioè alle imposizioni parametriche della realtà e della tecnica, e un fatto espressivo” ( L. Moretti, Struttura come forma, in “Spazio”, n. 6, dicembre 1951, p 24). Si tratta dell’idea classi della coincidenza fra soluzioni strutturali, funzionali e formali.L’architettura dunque è un fatto “reale” perché si pone problemi di concretezza, e si distacca dalla concezione dei razionalisti, con i quali egli è in forte polemica, perché accecati dalla volontà di rappresentare schemi espressivi astratti e per il graficismo delle loro composizioni; è un fatto “espressivo” perché le necessità funzionali restano sullo sfondo, mentre emerge la grande carica di modernità e astrazione formale. Moretti non ama considerarsi un razionalista, egli è un moderno. Opera per semplificazione, Il suo procedimento parte dalla storia, dal classico, dagli architetti del manierismo, del Barocco, da Borromini in particolare. Tuttavia Moretti è molto attento agli episodi dell’architettura internazionale. Non possiamo sottovalutare l’importante contributo teorico offerto da Moretti nei pochi numeri della rivista “Spazio” da lui diretta fra il ’50 e il ’53, dove spesso viene indagata la natura dell’architettura classica che finisce per diventare la matrice base di tutta la ricerca di Moretti prima e dopo la guerra.
Giuseppe Terragni, Novocomum, Como (1928)
L'architettura razionale parte infatti da una forma geometrica pura, preordinata, che nel caso di Terragni (1904-43) corrisponde quasi sempre al quadrato o al rettangolo, e per la pianta da una forma stereometrica pura, cioè quella della parallelepipedo. Mentre Aalto procede dall'interno, a partire quindi dai percorsi e dai vari movimenti dell'uomo, e una volta studiati e individuati li "riveste" di un involucro, nel caso di Terragni c'è il preordinare una forma e trovare all'interno di questa una griglia in cui interpretare le funzioni sulla base di una logica di coordinate prestabilite. Il Novocomum, costruito nel 1928 a Como, nasce all'interno del Gruppo 7, che si forma nel 1926 come branca polemica all'interno del Politecnico di Milano. Il Gruppo 7 (Castagnoli, Figini, Frette, Larco, Pollini, Rava e Terragni) si preoccupava di cercare un avvicinamento verso le linee tracciate da Le Corbusier in quegli anni (tanto che esordiscono dicendo "esiste uno spirito nuovo che sta muovendo nell'Europa" parafrasando lo stesso Le Corbusier).
Contemporaneamente a questo contesto culturale nel quale Terragni si trova a lavorare, esistono altri gruppi coi quali viene in contatto; importante è in particolare il contatto con il cosiddetto Gruppo di Como, ovvero un gruppo di pittori e scrittori, fra cui Fontana, Soldati, Radice, Reggiani, Melotti, che corrispondono alla linea dell'astrattismo delle arti visive italiane. Si tratta di un gruppo che per la prima volta in Italia rompe l'accademismo figurativo, introducendo i principi di una pittura e una scultura astratte. Li accomuna, da un lato l'affinità verso le forme astratte e l'interesse per quello che avveniva in Europa, dall'altro il richiamo ad un nazionalismo che diventa un punto fondamentale, per esempio, del Gruppo '900 e che corrisponderà perfettamente alle politiche propagandistiche del regime.Un altro punto di partenza su cui riflettere, per Terragni come per i suoi seguaci, è il destino dell'avanguardia futurista italiana. Pagano nota come il problema di Terragni e degli architetti della sua generazione fosse stato quello di cercare di scrollarsi di dosso l'idea di appartenere ad un'architettura di avanguardia che non era riuscita a trovare nella realizzazione della storia una propria meta.
Nella poetica di Terragni, da un lato c'è lo studio e l'attenzione di ciò che avveniva contemporaneamente in Europa, l'estetica della macchina, dell'ingegneria applicata all'architettura e tradotta nel Novocomum; dall'altro c'è un cercare di fuggire dalle accuse di eccessiva europeizzazione dell'architettura italiana di quegli anni e fondare la propria riflessione sulla cultura delle tradizioni in Italia. In realtà il Gruppo 7 e Terragni tentano di rivendicare le loro radici legate alla tradizione culturale italiana e in primo luogo con la classicità. Tutto il discorso sull'adozione di metodi che implicavano la standardizzazione e l'utilizzazione di una concezione modulare e tipologica dell'architettura, parte dall’architettura classica. Uno slogan utilizzato in quegli anni era infatti "Roma costruiva in serie".C'è da parte degli architetti di questo periodo la volontà di riconoscere le radici del razionalismo nella cultura mediterranea: l'adozione della geometria, cioè, viene identificata come il punto di partenza di tutta l'architettura che si sviluppa lungo il bacino mediterraneo, sottraendo quindi la paternità dell'utilizzazione delle forme razionali al Nord e a tutte quelle nazioni in cui si svilupperà l'architettura razionale.
Nel caso del Novocomum, il problema consisteva nell’immettere nel tessuto urbano di Como un edificio per abitazioni di una certa portata. Viene da subito notata l'estraneità dell'edificio, tanto è vero che dopo la sua costruzione esso diede molti problemi ai cittadini, i quali ne proposero addirittura l'abbattimento in quanto sembrava turbare il gusto corrente. C'è da parte di Terragni l'utilizzazione di una serie di elementi formali sicuramente più vicini all'idea di razionalismo e lontani dalle esperienze tipiche della Milano (punto di irradiazione culturale più forte per Como) di quegli anni. Il Gruppo 7 aveva identificato in Milano e nella sua architettura, una delle due possibili vie di sviluppo dell'architettura italiana di quegli anni, in contrapposizione a quella romana. Quest'ultima aveva puntato sulla riflessione sul classico, spesso esasperata, e aveva prodotto anche le fantasmagorie scenografiche, eclettiche, di Brasini, espressione del sogno risvegliato e rinvigorito di una Roma imperiale. La Milano di quel tempo era invece la Milano della Cà Brutta di Muzio, in cui al tema classico corrispondeva una attenzione verso temi neoclassici, che scadevano spesso in una sorta di manierismo decorativo, che trovava nelle decorazioni di facciata la propria vera cifra di riconoscimento.
Le istanze formali alle quali sembra rifarsi Terragni in quest'opera, sono sicuramente quelle del protorazionalismo e del futurismo (si veda ad esempio l'utilizzo del cilindro di vetro a richiamare l'idea dei grandi ascensori, o le lingue di vetro proprie dell'architettura di Sant'Elia), ma d'altro canto vi è anche un chiaro riferimento al costruttivismo sovietico. In particolare vi è un corrispettivo che viene realizzato quasi in concomitanza con il Novocomum, che è il club operaio Zuyev costruito da Golosov a Mosca, in cui il tema dello svuotamento angolare ottenuto creando un elemento cilindrico di raccordo fra le due parti è certamente un espediente formale proprio del costruttivismo sovietico. Le pareti laterali del Novocomum sembrano procedere secondo una maglia ortogonale molto semplificata, interrotta nel punto d'angolo. Questo viene svuotato della funzione portante e anche estetica, nel senso di un’immagine di una statica massiccia. Viene invece ribaltato il rapporto pieno-vuoto, alto-basso. Il dato che accentua questo rapporto è rappresentato dal fatto che l'ultimo piano non segue l’ andamento curvilineo del volume cilindrico ma avanza su uno svuotamento. Il tutto viene realizzato in travertino bocciardato e gli infissi vengono lasciati di colore arancione, ed è stato notato da Argan come nell'utilizzazione di questo contrasto cromatico ci possa essere una discendenza sulla teoria cromatica del Bauhaus.
Giuseppe Terragni, Casa del Fascio, Como (1933-36)
A conferma del fatto che si tratta di un razionalismo propriamente italiano, sta il fatto che Terragni presenta una pianta piuttosto semplificata, quadrilatera; non utilizza il metodo proprio del razionalismo europeo, l’arretramento della struttura, facendo sporgere i solai e rendendo in tal modo la facciata indipendente dalla struttura. Terragni invece utilizza una specie di griglia forata a rappresentare una membrana, elemento di separazione che non nega la distinzione fra l'interno e l'esterno ma neanche la conclama come frattura irrimediabile. Terragni in altre parole rifiuta l'ultimo dei cinque punti di Le Corbusier, quello della facciata libera, e tiene fortemente a rappresentare anche in facciata il vincolo appositamente scelto di una maglia ortogonale, predeterminata, all'interno della quale poter scegliere una articolazione interna. È riconoscibile nella linea progettuale di Terragni l’adozione di precise tipologie. Uno dei punti più importanti di questa costruzione, ad esempio, è rappresentato dal “cortile”, il quale si trova in posizione leggermente decentrata, un'interpretazione della regolarità della maglia ortogonale non vincolata da un principio di simmetria, di assialità di stampo classico, ma "elaborata". All'interno del cortile è possibile riconoscere quello che lui stesso definisce "un chiostro di arcaica classicità".
Da un lato è presente l'idea del cortile coperto dal vetro-cemento, dove ancora una volta l'utilizzo di questo materiale è emblema di alta tecnologia per l'epoca; l'idea dello spazio utile per le grandi riunioni, per le adunate dei rappresentanti del regime; dall'altro lato vi è il riferimento tipologico al chiostro della classicità e, al tempo stesso, alla tipologia del sistema a logge. Si tratta di un cortile che mostra la doppia altezza dell’edificio attraverso un sistema di loggiati che si affacciano e rappresentano, in chiave moderna e razionale, la reinterpretazione di una tipologia già assimilata dalla tradizione architettonica tipica della scuola italiana. Esiste in questo edificio anche una riflessione sull'articolazione fra pieno e vuoto nelle facciate. Ma la cosa più evidente in tutto il progetto è l'intenzione da parte di Terragni di facilitare il più possibile la leggibilità di questo spazio, inteso sia come cavità interna sia come convessità esterna. L'utilizzo di questa griglia all'esterno che funge da tramite fra i due mondi, nonché il fatto di avere degli ambienti così chiari e cristallini nella loro logica ortogonale, risponde proprio ad un principio logico di chiarezza nella leggibilità dell'opera.
Più volte Terragni nei suoi scritti parlerà di trasparenza, di uno dei temi ricorrenti, una delle invarianti dell'architettura razionale e contemporanea. Nei paesi nordici il problema della trasparenza viene tradizionalmente risolto attraverso l'utilizzo delle superfici vetrate; Terragni ci mostra come la trasparenza possa essere ricercata e trovata attraverso l’articolazione modulare delle campate, i rapporti calibrati fra pieno e vuoto, senza dover ricorrere alla peculiarità materica del vetro. Rispetto al Novocomum il rapporto con ambiente risulta molto più studiato, pensato e pacifico, nel senso che se il Novocomum dichiarava esplicitamente la sua estraneità dal contesto. Nella Casa del Fascio c'è invece uno studio delle proporzioni e soprattutto delle dimensioni altimetriche, perfettamente legato con il contesto, è cioè perfettamente in linea sia con l'abside del duomo che con la collina di Brunato, che rappresentano i due elementi rilevanti di questo contesto. All'interno dell'edificio era stato approntato un programma iconografico con pannelli foto-meccanici scritti e illustrati da fotografie. Il fatto di insistere su questa logica cristallina della ripetizione modulare è chiaramente visibile nelle proporzioni e nelle dimensioni dell’edificio. Si tratta di una pianta che si imposta su un quadrato perfetto di 33 metri di lato, con un'altezza pari alla metà della sua lunghezza.
Il fatto di adottare una dimensione come di 33 metri è volto a ribadire l'importanza attribuita al concetto di numero come rapporto armonico. Proprio in quegli anni, per riferirci alla multidisciplinarità degli architetti del primo novecento, c'è un fiorente contatto tra gli architetti razionalisti e matematici. In particolare tramite l'interesse dei pittori del Gruppo Como dell'astrattismo italiano, si stabilisce un punto di contatto fra l'architettura e le regole matematiche. Terragni e alcuni suoi allievi, soprattutto Cesare Cattaneo (1912-43), autore, fra l'altro, della casa di Cernobbio, studiano in particolare i problemi della proporzione armonica, della sezione aurea, in maniera estremamente rigorosa e scientifica: nessuna misura all'interno delle loro architetture sfugge a questa logica strettamente matematica. Ovviamente questa struttura permetteva anche la libera articolazione delle funzioni.
EUR
Il progetto dell’insediamento è affidato al gruppo costituito da Piacentini, Pagano, Piccinato, Vietti, Ettore Rossi. Dopo una prima fase di elaborazione in cui si confrontavano intenzioni comuni con esiti “moderni”, in cui appariva un modello di città fatta di acciaio, vetro e cemento, la direzione cade nelle mani di Piacentini che conferisce all’operazione un carattere monumentale e retorico. Questa linea viene perseguita anche nella valutazione dei progetti di concorso. Alla fine dell’operazione Pagano scrive sulle pagine di “Casabella” del ’41 Occasioni perdute, in cui pubblica i progetti scartati dalle commissioni di concorso.L’Eur è il luogo delle esposizioni e delle cerimonie e si configura come città autonoma, propagine di Roma verso il mare, espressione di un sogno di grandezza che resta chiuso in se stesso e che testimonia un momento di grandezza e allo stesso tempo di decadenza.Gli edifici permanenti per l’Esposizione Universale del ’42 vengono indetti nel ’37.
Adalberto Libera, Palazzo dei ricevimenti e congressi, Roma-Eur (1937-54)
L’edificio era previsto nel progetto dell’ente Eur per ospitare i congressi e i grandi ricevimenti ufficiali di rappresentanza che si sarebbero svolti durante le manifestazioni dell’Esposizione.Il palazzo sarebbe rimasto anche dopo la conclusione dell’Esposizione Universale, come uno dei centri principali della vita della capitale “secondo i concetti della più attuale urbanistica, centro in cui passerà la grande via Imperiale, e il cui nucleo principale sarà composto di importanti edifici pubblici”. Il bando proseguiva, raccomandandosi agli artisti italiani “i quali sapranno esprimere nelle masse e nelle linee ardite e grandiose le linee essenziali dell’arte architettonica romana e italiana. Il sentimento classico e monumentale, nel puro senso di atteggiamento dello spirito che si è manifestato ed ha resistito attraverso i secoli in tutte le innumerevoli espressioni artistiche del nostro paese, dovrà essere, pur nelle più moderne e funzionali forme, il fondamento dell’espressione architettonica. Insomma, l’architettura dell’Esposizione Universale di Roma dovrà caratterizzare la grande epoca mussoliniana”.La prima versione proponeva tre volumi – il prisma della sala dei ricevimenti, l’anello delle sale per assemblee, il grande ventaglio parabolico del salone dei congressi – saldamente intrecciati tra loro.
Il progetto definitivo sviluppa in particolare l’immagine della terza dimensione, si basa sull’idea di un edificio impostato su un basamento sul quale è posto un volume, quello della sala principale. Il suo ruolo è fondamentale perché l’edificio costituisce il fondale del primo asse trasversale dell’E42, congiungente il palazzo dei congressi e il palazzo della civiltà italiana.L’edificio che ospita la sala dei ricevimenti è costituito da un grande salone centrale quadrato, coperto da una volta a crociera metallica all’altezza di 38,60 metri da terra; è preceduto da un atrio con 14 colonne di granito alte dodici metri e prive di capitello, sormontato da una pensilina aggettante sulla quale doveva essere posta una quadriga in bronzo opera dello scultore Francesco Messina (mai realizzata).La sala dei congressi è invece aperta sull’atrio posteriore, perfettamente simmetrico a quello principale; può accogliere 3000 persone sedute e 1500 in piedi.Intorno al sistema sala dei ricevimenti – sala dei congressi sono disposti altri numerosi spazi espositivi, uffici per riunioni, archivi e servizi, in modo da chiudere il volume tra i due atrii. Sopra la sala dei congressi è collocato un teatro all’aperto.
L’impatto monumentale del palazzo non è quello progettato, poiché non si è realizzato il sistema di ampie piazze porticate previste, che avrebbero consentito di vedere da lontano l’edificio nella sua completa larghezza.La struttura, a parte le colonne di granito, è in cemento armato; il rivestimento esterno è in marmo bianco in ricorsi alternati di due dimensioni diverse.Il cantiere si apre nel 1938; viene sospeso nel 1943; ripreso nel 1952 e concluso nel 1954.
G. Guerrini, E.B. La Padula, M. Romano, Palazzo della Civiltà Italiana, Roma-Eur (1937-40)
Il Palazzo avrebbe dovuto ospitare la mostra della Civiltà Italiana durante l’Esposizione, per divenire successivamente museo di quest’ultima Il concorso per il Palazzo della Civiltà Italiana fu bandito nel 1937; nelle sue linee generali e nella struttura tecnica ricalcava quello del Palazzo dei ricevimenti e congressi e richiedeva un “edificio a carattere stabile”.L’edificio avrebbe dovuto “esprime ed esaltare in forma chiara, evidente e comprensiva, la sintesi della Civiltà Italiana dalle origini ad oggi, nell’arte, nella tecnica, nella scienza, negli eventi storici, nelle leggi sociali, nel pensiero filosofico, politico, religioso, ecc.” L’unico vincolo imposto dal bando era l’ubicazione del manufatto, mentre per la forma e l’altezza si raccomanda soltanto di rispettare i caratteri di “evidente grandiosità e monumentalità dell’edificio”.La commissione giudicatrice assegna il primo premio al progetto del gruppo Guerrini, La Padula, Romano, il secondo ai BBPR e Ciocca, il terzo a Ridolfi.
L’aspetto più convincente del progetto di Guerrini, La Padula, Romano sono gli archi a tutto sesto “assunto come elemento tipico della Civiltà Italiana – si legge nella relazione scritta da Piacentini – quell’elemento che dalla prima epoca romana, attraverso tanti secoli ha sempre – perfino nel secolo gotico – resistito invitto. E per meglio affermare questo senso eterno dell’arco lo si è lasciato puramente costruttivo, senza alcuna accentuazione che avrebbe potuto richiamare particolari epoche o stili, e lo si è ripetuto in tutti i prospetti con una insistenza ritmica, che vuole appunto essere una affermazione di essenzialità eterna”.Alcuni aspetti del progetto vincitore non sono considerati convincenti: i pilastri, che sono tutti uguali; la mancanza di un elemento terminale in alto, l’assenza di un portale d’ingresso; l’eccessiva sottigliezza dei pilastri d’angolo.La commissione si avvale della norma del bando che dà all’ente Eur la “facoltà di emendare e perfezionare” il progetto.
Quello realizzato non è il palazzo con il prospetto quadrato progettato, ma è il frutto delle modifiche operate: sarà realizzato con 6 piani, per un’altezza di 50 metri circa, con nove fornici per piano; sarà concluso da un’alta fronte con la scritta; saranno irrobustiti i pilastri d’angolo.Inoltre, all’interno non vengono costruite le grandi rampe del progetto, bensì uno scalone verticale; l’edificio inizialmente pensato in muratura è realizzato in cemento armato e rivestito di lastre di travertino, per ragioni economiche e di tempo.L’edificio, in sintesi, è un parallelepipedo su base quadrata a sei piani con nove fornici per piano, uguale su tutti i lati; sorge su un podio e vi si accede tramite due gradinate.Sul podio sono collocati 4 gruppi scultorei in travertino, raffiguranti i Dioscuri; sotto i fornici delle arcate del piano terreno sono collocate 28 statue in marmo che illustrano le attività umane, realizzate da artisti vari (tra cui A. Biancini, L. Minguzzi, M. Mascherini, etc.)I lavori per il Palazzo della civiltà italiana iniziarono il 30 giugno del 1938, l’opera venne inaugurata il 30 novembre del 1940. Nel 1941 agli stessi progettisti viene affidato l’allestimento della mostra che si sarebbe svolta all’interno del palazzo.
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S.PORETTI, Progetti e costruzione dei Palazzi delle Poste a Roma 1933-1935, Roma
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R. FIACCHETTO, Cesare Cattaneo 1912-43. La seconda generazione del razionalismo, Officina edizioni, Roma, 1987
C.CATTANEO, Giovanni e Giuseppe. Dialoghi di Architettura, Jace Book, Milano, 1993
B)
1
L’ARCHITETTURA nei REGIMI TOTALITARI
Breve analisi dell’architettura negli anni ’30 – a cura di Roberto Bio
ITALIA
La realtà artistica italiana degli anni del regime è dominata da una profonda ambiguità fra la ricerca di soluzioni nuove, moderne ed il tentativo di evidenziarne le radici classiche. D’altronde il fascismo, contrariamente al nazismo tedesco, per differenziarsi dai suoi predecessori doveva auspicare un indirizzo moderno, ma come dittatura di destra non poteva slegarsi completamente dal passato, generando quell’ideologia che Togliatti era solito definire come “ideologia eclettica”.
Di tale dicotomia si rivela esempio significativo il campo letterale, se ricordiamo come, sebbene su posizioni differenti, si dichiarano vicini al fascismo gli esponenti più di spicco dell’avanguardia letteraria come
Marinetti, Ungaretti e Quasimodo ed il più aulico e tradizionale D’Annunzio.
In architettura questo doppio binario viene espresso dalle tendenze razionaliste del Gruppo 7 (Terragni, Frette, Rava,
Figini, Pollini, Libera, Larco) prima, e del M.I.A.R. poi, e l’opera di neoclassicisti quali Brasini,
Giovannoni, Piacentini. A parte il periodo immediatamente precedente la II Guerra Mondiale,
quando il partito decise di soppiantare in blocco l’architettura razionale, in omaggio alla “romanità
imperiale degli archi e delle colonne” - periodo che politicamente corrisponde al definitivo
allineamento a fianco della Germania nazista -, è noto come nel quindicennio anteriore, le gerarchie
governative non si opposero decisamente al movimento moderno, dimostrandosi, al contrario,
favorevoli ad un compromesso, espressione di uno “svecchiamento” della cultura nazionale radicato
nella storia. Espressioni tipiche di questo clima di compromesso sono la Mostra del Decennale del
1932, la Stazione di Firenze di Michelucci e, su tutte, la Città Universitaria di Roma del 1936 dove
Piacentini distribuì il lavoro tra membri del dissolto M.I.A.R. (Pagano, Aschieri...) ed altri più vicini a
lui (Foschini, Rapisardi), con la direttiva di fare del monumentale, ma senza archi e colonne. Ma già
dal ’31 nel dibattito architettonico compaiono dichiarazioni che ricordano come il compito
dell’architettura sia di “sorreggere, accompagnare e illustrare le conquiste del fascismo che è
impegnato in una gara di primato nel mondo”. Questa ricerca di un’architettura di Stato è
l’emblema della radicale trasformazione che il fascismo opera nella gestione della cultura ufficiale e
nell’organizzazione del consenso da alcuni anni, attuando il pensiero di Giovanni Gentile secondo il
quale tutto ciò che è spirituale dev’essere nella “grande sfera dello Stato”. Parallelamente il regime
favorì un ampio sviluppo urbanistico, tramite un nuovo strumento operativo, il piano regolatore.
Testimonianze di tale attività ci vengono dai più di 180 concorsi banditi per piani regolatori di città
grandi e piccole, insieme al gran numero di concorsi per sistemazioni urbane speciali.
Emblematici a tal proposito risultano:
- il piano di Brescia, tutto incentrato su di un’ampia piazza centrale (Piazza della Vittoria),
ottenuta demolendo parte del centro antico della città, che raccoglie il traffico extraurbano incanalato
fino al centro da grandi arterie di comunicazione, e che consente il recupero di aree centrali
declassate a fini terziario-burocratici, senza peraltro pregiudicare l’uso delle aree periferiche,
collegando in tal modo la necessità di sviluppo del settore terziario ed i servizi di Stato ad esso
connessi. L’importanza del piano Piacentini è da riscontrare nella sua influenza sui piani delle altre
città. Esso diventa modello per diversi piani per le città medie, che il partito considererà come i poli
della ristrutturazione territoriale.
- Il piano di Roma di Piacentini del 1931, che segue un’espressione del ’16 dello stesso
Piacentini secondo il quale bisognava lasciare intatta la città vecchia per svilupparne “altrove” una
nuova, e l’articolo “Sfollare le città” del 1928. Gli interventi che vengono proposti pertanto lasciano
il centro protagonista di una serie di sventramenti atti ad esaltare i “tempi del primo impero auguste”
e prevedono contemporaneamente la bonifica delle paludi a su ed ad est della città, lo spostamento
del centro terziario ad est ed il decentramento residenziale lungo la direttrice Roma-Ostia.
- L’Eur, la sintesi della Roma di Mussolini, la capitale di un paese nel quale passato, presente e
futuro sono finalmente, ed in maniera tangibile connessi; in effetti il futuro EUR, che al termine delle
manifestazioni dovrebbe divenire un moderno quartiere modello, si trasforma, con la sua via
Imperiale ed i suoi edifici definitivi, da semplice esposizione in un nuovo complesso monumentale
della Roma fascista.
- Il Piano Regolatore della Valle d’Aosta redatto nel 1936 sotto il coordinamento di Adriano
Olivetti da Figini, Pollini, Banfi, Belgiojoso, Peressutti, Rogers (Bbpr) e Bottoni, che configura una
concreta avanguardia imprenditoriale, la quale si affianca all’azione dello Stato nel settore della
pianificazione territoriale, investendo una regione depressa e proponendone il riscatto attraverso un
azione pianificatrice basata su due elementi diversi, ma complementari: l’industria e il turismo;
sviluppando, in tal senso, la concezione di piano già avanzata da Olivetti per la fabbrica di Ivrea:
realizzare nella nuova economia l’atteso componimento tra l’umano ed il sociale.
Considerato il ruolo di catalizzatore assunto da Piacentini, non si può evitare di ricordare personalità
del calibro di Terragni e Pagano, che con il loro operato artistico e letterario cercarono di ampliare il
linguaggio architettonico italiano, scontrandosi direttamente con la ridondante retorica del regime.
Su tutte le opere dell’epoca possiamo ricordare come significative, tra quelle non ancora citate: la
Casa del Fascio di Como di Terragni, il capolavoro dell’architettura razionalista italiana dove si
possono trovare riscontri dell’insegnamento di LeCorbusier nell’utilizzo di forme prismatiche, nel
tetto giardino; il Novocomum a Como di Terragni ancora; Sabaudia l’unica espressione urbanistica
priva della magniloquenza abusata in Littoria e lontana dalle concezioni razionaliste; la Casa della
Scherma al Foro Italico di Moretti; la sistemazione dell’Istituto Nazionale del Restauro; alcuni edifici
della Città Universitaria: particolarmente l’Istituto di Fisica di Pagano e quello di Matematica di
Ponti; le magnifiche strutture in cemento armato di Orbetello di Nervi.
GERMANIA
Le politiche economiche, basate sull’industria pesante e sulle sviluppo di una grande rete di
infrastrutture, intraprese dai primi governi nazionalsocialisti garantirono al popolo tedesco il
sorpasso definitivo della crisi economica iniziata nel ’29, crisi che, causa la dipendenza dagli aiuti
economici americani, vedeva la Germania come il paese europeo più colpito. La sconfitta della crisi
economica segnò un successo fondamentale per il crescente movimento di Hitler che non tardò ad
approfittare di questa crescente fiducia per impadronirsi del paese. In questo contesto, fomentato
dall’opera del Ministero della Propaganda di Goebbels, si sviluppò un crescente disappunto verso le
opere del Movimento Moderno, considerato come un’ideologia internazionale di stampo ebraico, che
nel 1937 furono definitivamente condannate come “manifestazioni di degenerazione artistica”. Per
comprendere gli sviluppi dell’architettura tedesca sotto il regime nazista risulta ora d’obbligo inserire
la figura di Albert Speer, colui che viene riconosciuto da diverse storie dell’architettura come
l’architetto di Hitler; al pari non si deve dimenticare come Hitler era solito comprendere
l’architettura come una sua diretta sfera d’influenza.
Figlio di un architetto, Speer fu allievo ed
assistente di Tessenow, una delle figure accademiche più importanti dell’epoca (N.d.R. insieme a
Poelzig), attorno alla quale gravitavano quegli studenti nazionalsocialisti, che lo avvicinarono alla
politica. Inizialmente l’incarico ufficiale di Primo Architetto del Reich era destinato a Paul Ludwig
Troost, che faceva parte di un gruppo d’architetti - tra i quali Behrens, Olbrich, Gropius - che negli
anni precedenti alla Prima Guerra Mondiale, reagendo alla ridondanza ornamentale dello Jugendstil,
si erano fatti paladini di una corrente architettonica estremamente sobria, nella quale confluivano gli
elementi tradizionali più semplici e le prime intuizioni artistiche moderne. Tuttavia dopo la sua
prematura scomparsa nel ’34, Hitler trasferì questo compito nelle mani di Speer.
Nei primi anni di
potere del regime l’architettura assume un aspetto marginale se si pensa che i più importanti lavori
commissionatigli furono sino al 1937, la scenografia del raduno di Norimberga, la ristrutturazione
degli interni della Cancelleria del Reich e la sostituzione di una tribuna di legno con una in pietra
dello Zeppelinfeld di Norimberga. Dal ’37, tuttavia, il crescere delle ambizioni hitleriane portò alla
presentazione di una serie di proposte megalomani che partirono con la risistemazione dell’area, di
16,5 kmq, del raduno annuale del partito, a Norimberga, incentrata su uno stadio per il quale era
stata fissata una capienza di 400.000 spettatori, di lunghezza di 550 metri e di una larghezza di 460,
con una cubatura pari a tre volte circa la cubatura della piramide di Cheope! Proprio a seguito di uno
dei lavori di Norimberga giunse all’elaborazione di quella “teoria delle rovine” per la quale
impiegando determinati materiali tradizionali e rispettando certe esigenze statiche, si doveva poter
costruire degli edifici capaci di eguagliare, in pieno sfacelo, dopo centinaia di anni i monumenti
romani. Secondo Hitler tali riflessioni erano logiche, tanto che stabilì che tutte le maggiori
costruzioni del Reich, posteriori a tale considerazione, avrebbero dovuto tenerne conto.
Parallelamente al piano di Norimberga si svilupparono in tutte le principali città del paese piani
urbanistici volti a magnificare la grandezza del partito. D’ogni piano viene incaricato un architetto di
fiducia del partito, se non addirittura di Hitler per le città da lui considerate più importanti: Berlino,
Monaco e Linz.
Il piano di gran lunga più rilevante è quello che Speer sviluppa a Berlino che negli
anni ’20, pur arricchendosi di significative opere della nuova architettura (ex. Siedlung, di Gropius)
non aveva sviluppato un esatto piano urbanistico. Secondo il piano di Speer, i massimi edifici della
città sarebbero stati messi in ombra da due opere architettoniche che Hitler aveva in mente di erigere
alle due estremità di una grandiosa strada, lunga cinque chilometri, larga 120 metri. All’estremità
nord, nei pressi del Reichstag (il Parlamento), egli prevedeva un’enorme aula per riunioni, costituita
in edificio a cupola di 250 metri di diametro, che avrebbe potuto ospitare più di una basilica di San
Pietro. Al polo opposto della strada era previsto un arco di Trionfo dell’altezza di 120 metri. L’idea
urbanistica di Hitler aveva, tuttavia, un grosso punto debole: non era stato pensato nella sua
completezza. Egli si era immerso a tal punto nella sua strada rappresentativa da perdere di vista
totalmente ogni altro struttura della Città di Quattro Milioni d’abitanti, d’altronde “la sua passione
per gli edifici destinati all’eternità - ricorda Speer nelle sue memorie - lo rendeva cieco alle
soluzioni del problema del traffico, ai quartieri residenziali, alle zone verdi: la dimensione sociale
non suscitava il suo interesse”. A Speer ed al dottor Leibbrandt del Ministero dei Trasporti toccò il
compito di completare questi progetti con la sistemazione della rete ferroviaria della città e la
creazione di un asse Est-Ovest perpendicolare alla grande strada. Ambedue gli assi sarebbero stati
fiancheggiati da grandi palazzi per uffici, la cui altezza sarebbe andata via via decrescendo verso zone
di costruzioni sempre più basse, sino a sfociare in una fascia di case unifamiliari annegate nel verde.
Il
sistema radiale, applicato ad una tale struttura, avrebbe poi avuto come conseguenza diretta il
trasferimento delle aree verdi verso il centro urbano. Il metro adottato per la realizzazione di questi
progetti urbanistici era rappresentato dai Champs Elysèes di Parigi e significativo il fatto che
Haussmann fosse considerato il massimo urbanista della storia. Con la stesura del piano di Berlino
Speer raggiunge l’apice del suo potere come architetto, tanto da ottenere un decreto secondo il quale
tutte le opere nazionali più importanti erano sotto la sua diretta tutela. L’ultimo edificio
rappresentativo da Speer progettato e l’unico realmente realizzato fu la nuova Cancelleria del Reich,
una chiara espressione classicheggiante soprattutto per la simmetria di pianta e facciata e per l’ampio
utilizzo di doppie colonne doriche in tutta la sua estensione. Con l’avvento della Guerra, la posizione
di Speer variò, la nomina a Ministro degli Armamenti cambiò radicalmente i propri compiti, che si
riavvicinarono a temi d’interesse strettamente architettonico solamente quando contravvenendo agli
ordini di “terra bruciata” di Hitler, esortò le più alte cariche dell’esercito e dei Gau (sostanzialmente
gli attuali Lànder) di evitare la distruzione di quelle fabbriche che sarebbero risultate fondamentali
per il futuro della nazione tedesca. Del rapporto fra Speer ed Hitler è da ritenersi significativa
un’affermazione dello stesso Speer:
“[...]. Per una grande opera, avrei venduto la mia anima come Faust. Ed ecco avevo trovato il
mio Mefistofele.”
UNIONE SOVIETICA
Punto focale per comprendere le complesse vicende artistiche sovietiche post-rivoluzionarie è
costituito dal concorso internazionale per il Palazzo dei Soviet del 1931. Fino a tale data, infatti, la
realtà sovietica era vista da diversi intellettuali come il terreno di più ampia propagazione delle
moderne idee d’avanguardia; in campo architettonico, in particolare, si potevano facilmente
individuare contributi derivanti da alcuni dei più importanti maestri quali LeCorbusier - Ministero
dell’Industria leggera, Mosca -, Behrens - Ambasciata tedesca di San Pietroburgo -, Mendelsohn -
industria tessile a San Pietroburgo -, May - piano urbanistico di Magnitogorsk. Degli insegnamenti di
tali personalità possiamo trovare facilmente riscontro nell’opera dei principali architetti sovietici
dell’epoca, quelli che diverse storiografie indicano come costruttivisti (Ginzburg, Melnikov,
Golossov...).
Il concorso per il Palazzo dei Soviet, tuttavia, rappresenta il successo di quella
controffensiva classicista organizzata intorno a personalità da sempre legate al mondo accademico -
Schoussev, Iofan, Zoltovskji - che dal ’35 trionfò incontrastata. La giuria lodò un po’ tutti i progetti
da quelli di LeCorbusier e Gropius, a quello di Brasini, passando anche attraverso i lavori di Poelzig,
Ljubetkin e Mendelsohn, ma premiò con il primo premio quello di Iofan e con il terzo quello di
Zoltovskji, che dichiaravano direttamente di aver tratto dai modelli dell’antichità gli elementi
fondamentali delle proprie opere. La sanzione organizzativa venne nel 1932, quando un decreto
ufficiale del governo invitò “tutti gli artisti, attori, musicisti, architetti [...] a dissolvere le loro celle
settarie” ed ad organizzare ciascuna professione in una federazione centralizzata. Tradizionalisti e
razionalisti furono obbligati a riunirsi nella S.S.A. (Federazione degli Architetti Sovietici), e la
direzione dell’unica rivista d’architettura del paese fu assegnata all’autore del Teatro dell’Esercito
Rosso a Mosca, Karo S. Alabyan, uno dei principali esponenti dell’accademia neoclassicista. Da
allora il monumentalismo acquista un incontrastato sopravvento impedendo all’architettura moderna
di fare le sue prove nelle grandi costruzioni del secondo Piano Quinquennale.
Decorazioni barocche,
ordini giganti, volumi asimmetrici si affermano sempre più secondo i più rigidi dettami di quello che,
al mondo occidentale, verrà presentato come il dettato fondamentale dell’ideologia artistica
socialista, il “Realismo Socialista”. Dal punto di vista morale e culturale l’architettura moderna in
Russia era finita. Le motivazioni addotte dai più importanti esponenti della cultura accademica per
giustificare tale fenomeno è, sostanzialmente riconducibile ai seguenti punti:
1. L’architettura moderna non ha radici storiche in Russia;
2. L’architettura moderna è formalistica e sradicata dalle basi sociali;
3. L’architettura moderna non è marxista;
4. L’architettura moderna è individualista e controrivoluzionaria;
5. L’architettura moderna è troppo povera d’espressione.
Dalla semplice lettura di tali giustificazioni si può comprendere come il sorgere dei primi difetti del
razionalismo (fallimento delle politiche residenziali della fine degli anni ’20) abbia spinto la classe
dirigente, a resuscitare l’architettura neoclassica, anziché spronarlo verso migliori risultati.
Sintomatica risulta, a tal proposito, una dichiarazione di Wright sulla posizione russa di fronte al
problema dell’architettura moderna:
“Edifici pilastrati, grandiosi soffitti da cui pendono sfavillanti candelabri di vetro, [...].Che
tremenda povertà di concezione dietro queste cose spurie! Eppure, che cosa vogliono i russi ora
che sono liberi? Vogliono proprio questo. Parlar loro di semplicità? No. Parlar loro d’architettura
organica? Rispondono: no, [...], noi chiediamo il classico! Così la Russia torna alla Rinascenza, e
accetta una degradazione di vita più grande di tutte le imposizioni contro cui si è rivoltata. La
libertà economica e sociale oltrepassa la cultura, ed ecco questo disperato trascinarsi della vecchia
cultura.”
Le illustrazioni di Wright c’illustrano più chiaramente questo secondo periodo dell’architettura
sovietica - coincidente politicamente con la radicale socializzazione del paese ed il progressivo
rafforzamento dello spirito nazionalista - che perdurerà fino al processo di “destalinizzazione”
avviato da Kruscev, alla morte di Stalin.
Roberto Bio
Dall’analisi appena conclusa sembrerebbe che la tendenza neoclassicista fu uno stile
caratteristico dell’architettura ufficiale dei regimi totalitari, tuttavia nel procedere con tale
affermazione bisognerà tenere conto d’alcune considerazioni:
1. In Germania l’architettura fu, per gli interessi personali di Hitler, strettamente legata alla politica,
diventando nello stesso tempo reale mezzo propagandistico come dimostrano alcuni filmati di Leni
Riefenstahl sui raduni del partito o sui modelli in legno in scala 1:50 del piano di Berlino.
2. In Italia l’architettura ufficiale dovette sempre scontrarsi con l’ambiguità del regime che pur
tollerando le opere avanguardiste, le confinò, paradossalmente, a vantaggio di quell’architettura
tradizionale che secondo la retorica del regime più si confaceva alla grandezza dell’Impero.
3. L’Unione Sovietica era una realtà a parte nella quale l’architettura, dopo aver vissuto un periodo
di straordinaria libertà, era indirizzata, contrariamente a quanto accadeva nel mondo capitalista,
sempre più aperto alle idee dell’International Style verso canoni eclettico-storicistici che dovevano
legittimare storicamente la Rivoluzione.
4. La stessa architettura del mondo occidentale non è estranea a fenomeni neoclassici sebbene legati
a tecniche costruttive moderne, lo dimostrano a Parigi: il Palais des Musèe d’Art moderne ed il
Musèe des Travaux publics di Perret od ancora a Washington l’edificio del Reserve Board federale
(architetto Crete, 1937), la rotonda romana dello Jefferson Memorial (architetto Pope, 1937), la
Galleria Nazionale, la Corte Suprema e l’Archivio nazionale (architetto Pope, 1939), come ricordato
dall’ex-rettore del M.I.T. John Burchardt nel volume The Architecture of America.
BIBLIOGRAFIA:
- Giorgio Ciucci, Gli architetti e il Fascismo, Einaudi, 1989
- Albert Speer, Memorie del Terzo Reich, Mondadori, 1971
- Bruno Zevi, Storia dell’architettura moderna, Einaudi, 1950
- Kenneth Frampton, Storia dell’architettura moderna, Zanichelli, 1991
- Henry-Russell Hitchcock, L’architettura dell’Ottocento e del Novecento, Einaudi, 1971
- Giulio Carlo Argan, L’arte moderna, Sansoni, 1995
C)
MARIO SIRONI: Elementi Biografici
a cura di Daniele Iosimi
MARIO SIRONI nasce a Sassari, secondo di sei figli, il 12 maggio del 1885. Il padre Enrico lavora, in quel periodo, per il Genio Civile come ingegnere. La madre Giulia Villa è la figlia di un curioso personaggio fiorentino, il Prof. Ignazio, noto per i suoi molteplici interessi che spaziano dall'astronomia, all'architettura, alla scultura.
Un anno dopo la nascita di Mario, la famiglia Sironi si trasferisce a Roma dove il padre Enrico viene trasferito e qui Mario compie gli studi elementari, medi e superiori, appalesando una forte inclinazione per il disegno.
I1 1898 è l'anno del primo grande dolore di Mario, infatti, a causa di una malattia polmonare, muore il padre Enrico, proprio quando la moglie Giulia è in attesa del sesto figlio. È un brutto momento che Giulia riesce a superare anche grazie al sostegno economico del suo fratellastro Libero. Intanto Mario frequenta l'Istituto tecnico di San Pietro in Vincoli, uscendone diplomato nel 1902. Nello stesso anno si iscrive alla facoltà di Ingegneria di Roma dove inizia a frequentare i corsi.
L'anno seguente, però, si ammala di nervi (psiconevrosi) ed è costretto ad un lungo periodo d'inattività dal quale il giovane esce con la ferma determinazione di dedicare tutte le sue energie alla pittura. Abbandona quindi l'Università ed inizia a seguire i corsi della Scuola Libera del Nudo presso l'Accademia di Via Ripetta. Lì ha modo di conoscere sia Melli che Balla e quest'ultimo lo introduce presso i suoi amici Severini e Boccioni.
Sironi diviene in breve molto amico di questi pittori che lo incitano e lo convincono ad aprire un suo studio nel centro di Roma. Intanto altri amici e parenti lo aiutano a sbarcare il lunario procurandogli piccole commesse come quella d'illustratore presso "La lettura", che Sironi, come egli stesso testimonia in una lettera, non ama particolarmente, anche se deve fare di necessità verità.
In questo primo periodo produttivo, Siconi si dedica allo studio del divisionismo forse influenzato da Balla e Boccini; tuttavia mantiene solidi legami con altra pittura più squisitamente realista. Del 1905 è il ritratto di "La madre che cuce", dove è evidente la commistione di queste tendenze pittoriche. Ed è proprio in casa della madre che Siconi ha modo di radunare, grazie anche alle doti pianistiche di sua sorella Cristina, molti degli artisti ed intellettuali conosciuti fra l'Accademia e la "terza saletta" del Caffè Argano.
A cavallo fra il 1905 ed il 1906 è da datarsi il primo soggiorno di Siconi a Milano, presumibilmente ospite del cugino Torquato che l'aiuta anche in solido passandogli una specie di borsa di studio. Sironi, però, continua a non stare bene e ciò è testimoniato da un appunto di Boccioni. Con questi Sironi vive un rapporto conflittuale, senz'altro dovuto alle forti personalità di entrambi. Sembra comunque che Sironi abbia raggiunto l'amico a Venezia in un soggiorno del 1907. Nel 1908 Sironi è a Parigi (anche qui dubbia la presenza di Boccioni) e in Germania, precisamente a Erfurt, ospite dello scultore Tannenbaum che aveva precedentemente conosciuto al Caffè Aragno di Roma. Un secondo soggiorno a Erfurt è ancora del 1908 e Sironi invia sue notizie alla madre rassicurandola circa il suo stato di salute. Un terzo ed ultimo viaggio in Germania nel 1911, sembra più una fuga da chi, compresa la madre, lo ritiene maturo per il sanatorio.
La ricerca pittorica di Sironi in questi anni si accosta sempre a quella di Balla e Boccioni, al loro divisionismo. Benché egli tenda ad accentuare una visione, rispetto a loro, maggiormente legata ai volumi piuttosto che a geometrie piane.
Dal 1912 cominciano le tematiche futuriste. Il 1914 è l'anno dell'"interventismo", ma anche l'anno in cui, nella Galleria "Permanente Futurista" di Sprovieri, a Roma, si tengono le prime mostre di questo movimento. Sironi è presente a quella denominata "Esposizione libera futurista" (aprile- maggio), comprendente anche pittori non direttamente coinvolti, con una serie di sedici dipinti. Conosce, sempre nel '14, la sua futura moglie, Matilde Fabbrini.
La fine del '14 e l'inizio del '15 segnano un importante cambiamento nella vita di Sironi, giacché inizia a prestare la sua collaborazione ai due periodici di "La Tribuna": "Noi e il mondo" e "La Tribuna illustrata".
Contemporaneamente si trasferisce a Milano all'inizio dell'anno e prende a collaborare anche con la rivista "Gli Avvenimenti". Il fidanzamento con la Fabbrini è ormai ufficiale. Alla fine di marzo Marinetti lo inserisce fra i dirigenti del Futurismo, felice di aver potuto rimpiazzare l'uscita di Soffici con "un ingegno almeno cento volte superiore".
Tutti i futuristi fanno domanda di arruolamento nel Battaglione lombardo come volontari ciclisti e automobilisti. Ai primi di giugno partono per Gallarate e poi per Peschiera. Esistono varie testimonianze scritte dei loro spostamenti fino a Malcesine: ma alla fine dell'anno, dopo una vittoriosa operazione militare, il Battaglione viene smobilitato e Sironi, che ne aveva fatto domanda, parte per il Corso Allievi Ufficiali del Genio che si tiene a Torino; ne uscirà sottotenente a metà del '17. Viene destinato a Pieve di Cadore. In questa zona Sironi rimane dislocato con l'8° Corpo d'Armata, sino alla fine della guerra ed il 1° gennaio del 1919 egli risulta essere a Vittorio Veneto.
Nel 1919 Sironi converge silenziosamente verso temi metafisici, trattati, tuttavia, nella solita personalissima maniera, con le figure più che mai scandite nei vigorosi chiaroscuri. Tanto da accostarlo più che ad un De Chirico, con la sua pittura nitida, pulita, a certa pittura nordica, tedesca, vicino a Grotz o Permeke. Anche i "paesaggi urbani" restano temi di impostazione metafisica da un lato, e assolutamente brutali, nell’angoscioso realismo, dall’altro. In essi tutto è chiaro, poiché nessun elemento è casuale e nella presa dell’immagine è individuabile anche l’ora: l’alba d’inverno. Ancora nel luglio del 1919 sposa a Roma Matilde Fabbrini, da cui avrà due figlie, Aglae e Rossana. Nell’ottobre espone alla "Casa d’Arte Bragaglia" in Via Condotti, la sua prima mostra personale, recensita, non senza polemiche, da Mario Broglio su "Valori Plastici". Riparte quindi per Milano dove lo attendono altri due impegni: il primo è la partecipazione alla "Grande mostra futurista" a Palazzo Cova, il secondo la collaborazione al mensile del "Popolo d'Italia", "Ardita". Continua, inoltre, le collaborazioni come illustratore con le altre testate già citate.
Nel '20 Sironi è un affezionato frequentatore dei "mercoledì" culturali in casa di Margherita Sarfatti a Milano, critico d’arte e mecenate degli artisti milanesi. Alla fine dell’anno partecipa, in veste futurista, alla Mostra italiana dell’Esposizione d’Arte Moderna di Ginevra, venendo notato come una delle figure italiane più significative dell’intera rassegna.
Frattanto le convinzioni politiche di Sironi, lo spingono verso Mussolini e i suoi. Quando nel '22 Mussolini sale al potere, Sironi diviene illustratore e grafico del quotidiano organo del Partito Fascista: "Il Popolo d’Italia". Ancora nel 1922 una svolta: Sironi, assieme ad altri sei pittori (Bucci, Dudreville, Funi, Malerba, Marussig, Oppi) e sotto gli auspici della Sarfatti, fonda, nella "Galleria Pesaro" di Milano, il movimento "Novecento", o più propriamente, "Sette pittori del Novecento". La Sarfatti, ideologa, programmatrice e, soprattutto, portatrice della spinta politica proveniente direttamente da Mussolini, pone subito il gruppo in antagonismo con "Valori Plastici", ideato e promosso nel '18, unitamente all’omonima rivista, da Mario Broglio a Roma. Dunque un’ennesima opposizione Milano - Roma in campo artistico? Parrebbe di si. C’è tuttavia da dire, come scrive Fabio Benzi, che "il movimento milanese - almeno agli esordi - si pone in stretta dipendenza - sia pure in negativo per quanto riguarda le 'scelte' - dalle ideologie di Valori Plastici, (...) in un rapporto oppositivo ed antagonistico che, nella polemica reazione alle ideologie romane, mostra un debito significativo". Sironi aderisce a "Novecento" portandovi tutto il peso della sua personalità artistica, quindi in modo non gregaristico, ma, al contrario, ponendo in campo tutte le sue idee e sperimentazioni precedenti: un protagonista, insomma. Egli si prefigge di orientare la sua arte verso una rivisitazione, meditata ed originale, del classicismo greco e romano, con un occhio (come nel "La modella dello scultore", A.1922) alle ombre e ai chiaroscuri di Caravaggio.
La prima uscita del gruppo dei "Sette pittori del Novecento" è dell’anno seguente (marzo 1923), sempre alla "Galleria Pesaro" e con la straordinaria presenza di Benito Mussolini alla serata inaugurale. La seconda importante tappa del gruppo è l'allestimento di una mostra alla XIV Biennale di Venezia. A tale importante manifestazione il gruppo si presenta con solo sei artisti, visto che Oppi era riuscito, attraverso suoi canali, ad ottenere una sala d’esposizione personale. Il gruppo dei "sei" perde anche altri due aderenti, Dudreville e Malerba, in seguito anche alle numerose accuse di "esterofilismo" e altre dure critiche apparse su vari giornali.
All’indomani della mostra, la Sarfatti giunge alla determinazione di dare al gruppo valenze e prerogative nazionali e a questo scopo decide di organizzare, per il 1926, la 1a grande mostra del "Novecento italiano", da allestirsi a Milano. Le adesioni piovono alla Sarfatti da tutta Italia e il 14 febbraio 1926 appunto, la mostra viene inaugurata al Palazzo della Permanente di Milano, con 110 artisti rappresentati e con la "solita" presenza di Mussolini alla vernice.
Sironi partecipa, ancora nel maggio del '26, ad una mostra di artisti novecentisti a Parigi, presso la Galleria Carminati e ad un’altra mostra di pittori italiani presentati a New York dalla Società Italo-Americana. Nel febbraio del '27 lo troviamo ancora a Milano, alla "Galleria Scopinich", dove espone assieme ad altri "15 artisti del Novecento": in marzo Sironi è a Zurigo, alla mostra "Italianische Maler", presso il Kunsthaus, per cui ha realizzato il manifesto. Era intanto entrato a far parte del Comitato artistico direttivo della Biennale monzese che nel '27 tiene la sua terza edizione. In quella sede espone caricature ed illustrazioni realizzate per "Il Popolo d’Italia", incontrando grande fortuna critica. Nell’ottobre dello stesso anno partecipa ad un’altra mostra di artisti italiani (Campigli, De Chirico, Tozzi, De Pisis, ecc.) allo Stedelijk Museum di Amsterdam e alla fine dell’anno realizza il manifesto del "Crepuscolo degli dei" di Wagner, rappresentato alla Scala di Milano.
Nel 1928 partecipa con nove opere alla XVI Biennale di Venezia e ad una mostra di "Sette pittori moderni" tenuta nelle sale della Galleria Milano. Inizia inoltre una collaborazione con l’architetto Muzio con il quale cura la sistemazione del Padiglione della Stampa italiana alla mostra "Pressa" di Colonia e del Padiglione del "Popolo d’Italia" alla Fiera di Milano.
Ancora firmato dai due è l’allestimento, nel maggio del '29, del Padiglione della Stampa italiana all’Esposizione internazionale di Barcellona. Fra marzo e aprile (1929) Sironi aveva intanto partecipato ad altre mostre. Innanzitutto alla rassegna di novecentisti italiani organizzata dalla Società des Beaux-Arts di Nizza (mostra ripetuta in giugno anche a Ginevra presso la Galleria Moos), poi alla mostra presso la "Galleria Milano" (a Milano) dove esponevano gli stessi artisti dell’anno prima ed infine, alla II Mostra del Novecento italiano, sempre tenuta alla Permanente di Milano. Anche in questa seconda edizione non mancano le polemiche di artisti e critici. Il tentativo di "aprire" ad altre tendenze artistiche, operato dalla Sarfatti, non raccoglie i frutti sperati (ad esempio il rifiuto di partecipare dei futuristi).
I1 1930 si apre con la partecipazione di Sironi, sempre in ambito collettivo, alle mostre della Kunsthalle di Basilea e Berna. In questo modo la Sarfatti e il Comitato direttivo di "Novecento", cercavano di dare respiro e legittimazione internazionale al Movimento, ma la polemica interna, come detto, non sembrava sopirsi, rinfocolata com’era soprattutto dal movimento di "Strapaese" di Soffici e da "Valori Plastici" di Broglio. Anche quest’anno è denso di avvenimenti, come l’inserimento di Sironi nel "direttorio" della IV Triennale di Milano (trasferita da Monza) in cui, sempre con Muzio, realizza una mostra delle arti grafiche. Segue la sua partecipazione alla XVII Biennale di Venezia e alla Mostra del Novecento Italiano a Buenos Aires e realizza, per la prima volta, le scene teatrali per "L’isola misteriosa" di U. Betti, messa in scena al Teatro Manzoni di Milano.
Sempre nel '30 Sironi incontra Maria Alessandra (Mimì) Costa, giovanissima modella, graziosa e avvenente. È un grande amore a prima vista. L’ormai quarantacinquenne artista stava immalinconendo in una "routine" anche burocratica, tutt’altro che esaltante. Si separa dalla Fabbrini e decide di vivere con Mimì. Quel grande amore lo scuote, lo fa ringiovanire di colpo, di nuova linfa alla sua pittura. Negli anni subito seguenti abbiamo la possibilità di assistere ad un evento magico per pochi artisti (si pensi a Picasso e Matisse): l’ingresso nell’arte della gioia di vivere. La serie di tempere e tecniche miste dipinte per integrare i progetti di interni di palazzi e motonavi presentati dall’arch. Pulitzer, ne sono una prova lampante. In esse Sironi crea, inventa, si sbizzarrisce in una cromìa quanto mai varia, chiara, allegra; in composizioni sempre nuove, libere, originali che non di rado toccano, o addirittura sconfinano, nell’informale. È questo un periodo assolutamente fecondo: sono di certo gli anni più felici della sua vita.
I1 1931 si apre con 1’inaugurazione della I Mostra Quadriennale di Roma (gennaio) dove Sironi partecipa con una "personale" di 23 opere fra cui "La famiglia". Scipione, in questa occasione, definisce Sironi un "espressionista sconclusionato", ma c’è chi ha la mano più pesante e lo accusa addirittura di adottare deformazioni del corpo umano eccessive. Durante l’anno espone ancora ad Atene, Trieste, Monaco, Helsinki, Stoccolma, Baltimora e Pittsburgh, dove gli viene riconosciuto il secondo premio alla XX Mostra Internazionale di Pittura del Carnegie Institute.
Dal 1932 comincia a dedicarsi al problema della pittura murale e ne scrive su "Il Popolo d’Italia" il 10 gennaio. A marzo espone con altri ventuno artisti italiani alla "Galleria Bernheim" di Parigi. Durante l’estate partecipa alla XVIII Biennale di Venezia. A ottobre si inaugura la Mostra della Rivoluzione Fascista (decennale) a Roma (Palazzo delle Esposizioni, Via Nazionale) e a Sironi è affidato l’incarico di realizzare alcune delle sale più importanti, quelle cioè della "Marcia su Roma", il "Salone d’onore" e la "Galleria dei fasci", con un grande bassorilievo, "L’Italia in marcia". Realizza, infine, anche il manifesto della mostra.
Nel 1933 1’evento principale è la V Triennale di Milano (Esposizione Internazionale d’arte industriale ed architettura moderna), del cui direttorio Sironi fa parte insieme a C. A. Felice e Giò Ponti (architetti).Sironi si occupa della parte decorativa della mostra e a tale scopo chiama attorno a sé tutta la "crema" degli artisti di allora (pittori e scultori), da Carrà a Campigli, da De Chirico a Savinio, da Depero a Martini, Marini, ecc. Sironi, da parte sua, realizza, oltre ad altre opere, un grande dipinto murale (110 metri quadri), "Il lavoro", che viene però distrutto l’anno seguente.
I1 1934 vede Sironi realizzare le scene per "La Tosca" di Puccini, rappresentata dal Teatro dell'Opera Italiana in Olanda e partecipa con alcune opere all’Esposizione dell’Aeronautica italiana a Milano, presso il Palazzo dell’Arte.
Anche negli anni che seguono l’attività di Sironi è sempre molto fitta di eventi artistici. Nel 1935 espone in Polonia, a Firenze, a Parigi (Jeu de Paume) e partecipa alla seconda edizione della Quadriennale di Roma. Sempre a Roma affresca l’Aula Magna dell’università appena costruita da M. Piacentini. Si tratta di un tema raffigurante "L’Italia fra le Arti e le Scienze", di ben 200 metri quadri, di sapore retorico, che viene poi riveduto e corretto nel dopoguerra da un altro pittore, tale C. Siviero, al fine di cancellarne le insegne fasciste.
Nel 1936 cura la realizzazione del Padiglione FIAT alla Fiera di Milano e fa ancora parte del direttorio della VI Triennale di Milano, per cui realizza il manifesto e le medaglie commemorative. Ancora di quest’anno è il cartone per il mosaico "La Giustizia fra Legge e Forza", che, una volta realizzato, viene sistemato nell’Aula della Corte d’Assise del Palazzo di Giustizia di Milano. Un altro affresco, "L’Italia, Venezia e gli studi", Sironi lo termina nel '37 per l'Istituto di Economia e Commercio dell’Università Ca’ Foscari di Venezia; inoltre quell’anno la Biennale di Venezia organizza all’Akademie der Bildend Kunste di Berlino, "Arte italiana dall’Ottocento ai giorni nostri", in cui Sironi espone alcune opere.
Nel '38 o '39 progetta una "Annunciazione" (vetrata concava policroma) per l’Ospedale Niguarda di Milano ed è presente alla Mostra del Dopolavoro presso il Circo Massimo di Roma. Nel '39 e '40 scolpisce due grandi bassorilievi per la nuova sede di "Il Popolo d’Italia"; espone in una collettiva alla "Galleria Barbaroux" di Milano e in una rassegna di artisti italiani nel Kunsthaus di Zurigo. Nel '41 espone a Cortina d’Ampezzo (Coll. Rimoldi), Milano ("Galleria Il Milione") e Genova (Gallerie "Genova" e "Rotta"). Progetta le scene per il "Dottor Faust" di Busoni, messo in scena da Salvini all’VIII Maggio Musicale Fiorentino. Fra il '42 e il '43 partecipa ad altre esposizioni in gallerie di Milano, Venezia, Firenze e Zurigo. Collabora particolarmente con la "Galleria del Milione" di Milano. Alla fine della guerra è costretto a sfollare per evidenti motivi politici, avendo infatti aderito, in precedenza, alla Repubblica Sociale Italiana. Ripara a Dongo e a Bellagio.
Termina così la lunga parentesi che aveva visto Sironi impegnato fra arte, politica, burocrazia, architettura e illustrazione. La sua vita continua, da ora sino alla morte, nell’esclusivo impegno di artista puro, anche se, accanto alla produzione da cavalletto, non finirà mai di predicare la grande importanza della pittura murale.
Nel '46 si occupa ancora di teatro realizzando scene e costumi del "Tristano e Isotta" di Wagner, che viene messo in scena nel '47 al Teatro alla Scala di Milano. Continua peraltro la serie delle esposizioni anche all’estero con mostre a Losanna nel Museo Cantonale, a Buenos Aires ("Galleria Muller") e Madrid, al Museo Nazionale d’Arte Moderna.
Il 1948 è per Sironi un anno particolarmente infausto: infatti il 19 maggio si uccide la sua figliola prediletta, Rossana. è per lui un grande dolore. Egli rimarrà per sempre inconsolabile. Un triste destino quello della figlia: colpita e scossa dalla separazione dei genitori non riuscì mai ad inserirsi e a prendere interesse nella vita. Scrisse a suo padre lettere toccanti, colme di tristezza e di dolore. Forse Sironi ne sottovalutò il tono e la portata. Rispose con affetto sincero, ma cercando di minimizzare l’entità dei problemi esistenziali della giovane. Sbagliava, sia pure in buona fede, sbagliava. Questo forse il suo cruccio, il suo dolore: non era riuscito a capire ed aiutare la sventurata Rossana.
Ancora del '48 è la realizzazione scenica, particolarmente riuscita, di "I Lombardi alla Prima Crociata" di Verdi, rappresentata nell’ambito del Maggio Musicale Fiorentino.
Nel '49 espone in una mostra personale alla "Galleria Genova" di Genova. Sempre nel '49 espone in una personale alla "Galleria Cadario" di Milano. Nel '5O alla "Galleria Annunciata" di Milano. Sempre nel '5O, oltre alle ormai innumerevoli partecipazioni a mostre collettive in ogni dove, propone e ottiene per l’anno seguente, che l’Ambasciata d’Italia in Francia, istituisca un Premio Parigi di pittura da tenersi a Cortina d’Ampezzo, che lo vede fra i membri della giuria assieme a Campigli, Carrieri, Casorati, Marini, Pallucchini, Rimoldi, Severini, ecc.. Nel '51, inoltre, partecipa ancora alla IX Triennale di Milano e alla II Biennale di Arte Sacra di Novara.
Nel 1952 Sironi contrae una malattia alle ossa. Per questo i suoi soggiorni a Cortina diventano sempre più frequenti. Egli, a Cortina, è ospite dell’albergatore e collezionista Mario Rimoldi; è curato all’ospedale ortopedico Rizzoli Codivilla dal suo amico primario Prof. Antonio Allaria. Lo segue e accompagna ovunque il suo allievo, il pittore Italo Squitieri. Le lunghe passeggiate in montagna, le gite e le escursioni sembrano giovare alla sua salute. Difatti la malattia, in un primo momento, appare in netto regresso, con somma gioia di tutti i suoi amici. Ma, purtroppo, in seguito, i lunghi soggiorni a Milano lo ripiombano in un clima umido ed insalubre. Di qui il progressivo aggravarsi della malattia che lo condurrà alla morte.
Ancora nel '52 espone alla "Galleria del Cavallino" (Venezia) in una mostra antologica con opere dal '22 al '35. La scelta è in chiara polemica con la Biennale di Venezia dello stesso anno. Nel '53 prepara una "personale" per la "Galleria Per" di Oslo, e la "Galleria del Milione" di Milano organizza una mostra di sue importanti opere, itinerante in molte città degli Stati Uniti. Nel '54 espone nell’ampia mostra antologica dedicata alle celebrazioni dei "Trent’anni della Triennale" di Milano. L’Accademia di San Luca (Roma) gli assegna il Premio "Luigi Einaudi" e il Ministero della Pubblica Istruzione La Medaglia d’Oro come "Benemerito della cultura". Nel '56 diventa membro dell’Accademia di San Luca.
Nel maggio 1960, la "Galleria Schwarz" di Milano allestisce una importante mostra di Picasso e Sironi. L’artista spagnolo, infatti, aveva sempre tenuto Sironi in somma considerazione, definendolo un "vero artista". Ancora nel '60, nell’ambito della XXX Biennale di Venezia, vengono presentate otto opere, dal 1908 al '17, che costituiscono una selezione del periodo futurista di Sironi. La rassegna, difatti, è il primo importante tributo a questo movimento storico in Italia.
Nel maggio 1961, infine, viene attribuito a Sironi il Premio Città di Milano, che risulta essere l’ultimo omaggio al grande Artista, visto che il 13 agosto, dopo essere stato ricoverato in una clinica milanese, Sironi muore all’età di settantasei anni. Viene tumulato nel cimitero di Bergamo, vicino alla madre ed alla prediletta figlia Rossana.
D)
L'architetto di Hitler: biografia di Albert Speer
Albert Speer fu l’esteta, il cerimoniere del nazional-socialismo, la mente delle imponenti opere, l’ideatore delle grandi geometrie destinate ad esaltare, nei propositi di Hitler, il glorioso reich millenario.
Nato a Mannheim nel 1905, da una benestante famiglia di architetti, seguì le orme parentali, completando gli studi con ottimi risultati.
La svolta della sua vita la si ebbe nel dicembre 1930, quando, dopo aver assistito, casualmente, ad un comizio di Hitler, ne rimase folgorato a tal punto da decidere, pur continuando a considerarsi un tecnico lontano dai giochi della politica, di iscriversi al partito nazional-socialista; ma Speer era e rimaneva soprattutto un brillante e geniale architetto ed il suo spirito creativo non tardò ad affermarsi:
nel gennaio 1933, il ministro della propaganda Goebbels gli commissionò dei lavori, tra cui quello di allestire la coreografia per l’oceanico raduno di partito del 1 maggio 1933; lo spettacolo straordinario ideato ed allestito dall’architetto, indusse Goebbels a nominarlo responsabile dei raduni del III reich e, soprattutto, a presentarlo, finalmente al fuhrer, che rimase folgorato dal suo genio creativo e dalla sua personalità.
Da quel momento in poi Speer, divenuto primo architetto del reich, avrebbe goduto, presso il fuhrer, di un credito mai concesso, prima di allora, a nessuno; Hitler, prima di affermarsi come statista, era stato, infatti, un mediocre artista che ora, da amante dell’arte qual’era, si trovava di fronte un luminare dell’estetica, subendone, inevitabilmente, il fascino.
I due stavano ore ed ore a discutere a disegnare, ad immaginare i futuri sviluppi estetici del grande reich, tra cui quello della creazione di una nuova e grandiosa Berlino, destinata a far rivivere i fasti e la magnificenza delle grandi meraviglie dell’antichità ed a trasformarsi, in tal modo, nella degna cornice per quella che sarebbe divenuta la capitale della grande Germania, padrona di un mondo dominato dalla suprema razza ariana.
Speer esaltò Hitler con i progetti per la Berlino del futuro, con le imponenti geometrie dei raduni nazisti di Norimberga e delle olimpiadi del 1936, tutti volti a far risaltare la potenza e l’onnipotenza dell’impero con la croce uncinata.
La carriera dell’architetto conobbe una drastica impennata il 7 febbraio 1942, quando, alla morte del potentissimo ministro degli armamenti Todt, Speer ne fu nominato successore, riuscendo, anche in questa nuova veste, a non tradire le attese:
la produzione bellica tedesca conobbe, infatti, sotto la sua meticolosa gestione, uno sviluppo ed un incremento notevole, anche grazie alle decine di migliaia di lavoratori forzati, reclutati, in tutta l’Europa occupata e mandati a morire di fatica e di stenti, in Germania, dallo stesso Speer, il quale era, dunque, perfettamente a conoscenza del loro terrificante destino , rendendosene perfettamente conto, di persona, in occasione delle sue frequenti visite agli stabilimenti, spesso trasferiti nelle cavità della terra per sfuggire ai bombardamenti alleati.
Con l’avvicinarsi della fine, Speer, ormai perfettamente conscio dell’inevitabile sconfitta, tentò di convincere alla resa il suo fuhrer, assumendo anche azzardate iniziative, inspiegabilmente perdonate da un Hitler che, viceversa, non aveva esitato a scatenare una purga senza precedenti, in seguito al fallito attentato del luglio 1944; ma Speer per Hitler era un qualcosa di diverso, una persona alla quale si sentiva particolarmente legato e alla quale tutto era permesso.
Processato a Norimberga, l’architetto del reich fu uno tra i pochi a dichiararsi colpevole, venendo condannato a 20 anni di carcere.
Morì a Londra il 1 settembre 1981.