Quella selva di microfoni (Valentina Croce)
Nonostante i telegiornali siano affollati di persone
(politici, giudici, sportivi…) che parlano davanti ad una selva di microfoni,
siamo lontani dal prototipo dell’ intervista. I tempi della televisione sono
ormai così ristretti che non permettono più un dialogo tra l’ intervistato e l’
intervistatore basato sulla conoscenza appresa in itinere durante la
conversazione. E’ un paradosso: sebbene il numero delle persone che parlano in
tv è cresciuto in modo esponenziale, l’ intervista sta scomparendo. Quelle da
cui siamo bombardati non sono interviste: sono dichiarazioni; che vengono
enunciate a priori, non presuppongono nemmeno le domande dei giornalisti. E
sono le stesse, identiche, per ogni tg. E anche se cambiano i protagonisti, le
idee di linea sono le medesime, studiate a tavolino dai capi uffici stampa dei
partiti. Dichiarazioni che sono “strilli”, come quelli dei giornali: ma se questi servono ad attirare l’ attenzione per far comprare il giornale all’ interno del quale si spera di trovare l’ intervista completa, in tv questo non accade: tutto finisce lì, in quelle poche frasi a volte anche tagliate ad arte. E poi si fanno sentire le pressioni politiche, non comprensibili magari al pubblico, ma dalle fazioni opposte. E’ come se anche i tg si fossero piegati al modello dei fast food:
anche l’ informazione deve essere veloce e attirare l’ attenzione, non importa
quanto sia comprensibile. Tale modello però non è stato ereditato dall’ estero,
anzi. I grandi tg americani o britannici contano su un numero inferiore di
servizi ma offrono reportage di spessore. Nelle rare interviste
di qualche minuto, il giornalista segue una scaletta magra e prestabilita,
senza soffermarsi per approfondire troppo gli argomenti. E molte volte è l’
intervistato stesso che non vuole rispondere a certe domande. Dunque anche quei
programmi che si proclamano “giornalistici” altro non sono che scatole zeppe di
persone parlanti, che si pubblicizzano. Domande scarne che prevedono risposte
telegrafiche. Un caso a parte erano le interviste di Sergio Zavoli, che poteva
contare su uno staff di giornalisti che prevedevano le possibili risposte per
produrre una scaletta varia e completa. Caso isolato. Per il resto vediamo
programmi di tutti i generi (pensiamo a quelli sportivi) dove le voci si
sovrastano a vicenda: dov’ è finito il rispetto per l’ interlocutore? E dove il
senso civico? Per valorizzare un’ intervista bisogna prevedere tempi più
lunghi, che permettono il crearsi di un’ atmosfera, nella quale giornalista e
intervistato possano relazionarsi in un Io-Tu, e non in un patetico Io-Esso. L’
intervista insomma deve essere un terreno per l’ incontro dell’ Altro, non uno
stadio in cui si gioca una lotta tutti contro tutti (che è il format dei talk-show
odierni). L’ autore Dario Laruffa in questo capitolo espone una
critica forte e lucida nei confronti di un’ informazione ormai distante dai
canoni classici: assaporare la conoscenza poco a poco, stimolati da una sana
curiosità è roba antica. Il pubblico gode nel vedere servizi che arrivano alla vita privata di
persone più o meno famose; e poi si fa economia sugli argomenti che invece meriterebbero
un approfondimento. Ma il capitolo si conclude con un’ esortazione: riscopriamo
e riportiamo l’ intervista ai suoi canoni, perché può esserci ancora molto
utile. Può rappresentare un barlume di serietà in questa tv dominata dallo
spettacolo fine a se stesso.