L'antropologo che intervista (Corrado Violo)
Anche l’antropologo utilizza la tecnica dell'intervista ma il suo scopo, a differenza dello storico, del sociologo o del giornalista, è “produrre rappresentazioni della realtà dialogate e significative, cooperativamente costruite con l’intervistato” secondo il principio socratico del “so di non sapere”.
In questo caso l’intervista diventa una “forma sistematica di dialogo” che rispetta quei canoni di non invadenza e rispetto tipici dell’osservazione partecipante sul campo e ampiamente utilizzati dalla ricerca etnografica.
A partire dal dopoguerra alcuni autori guardano a questa tecnica però come ad un “gesto sociale di invadenza o un'intrusione, come una pratica esercitata dalle classi dominanti sulle classi subalterne oppure come ad uno strumento usato per “dare voce ai ceti dominanti della società che soddisfano così i propri bisogni intellettuali”: ma queste sono prospettive che risentono del periodo storico in cui sono state formulate. Oggi l'antropologia, che ovviamente non si arroga mai il diritto di tentare di costruire teorie di portata generale, mantiene fermamente al centro “l'idea del contesto, del caso per caso”, nel tentativo di trovare delle regolarità, delle tendenze che delineino dei tasselli interpretativi delle diverse realtà conoscitive.
Centrale nel metodo è la dimensione di confronto intersoggettivo, è ancora quella “domanda ulteriore che scaturisce soltanto dall'ascolto dell'altro”, ascolto inteso come” viaggio ed esplorazione nelle rappresentazioni altrui”, un “ascolto strategico, profondo e non giudicante, senza il quale non si dà il dialogo” . Un “ascolto della vita” come racconta Siddharta di Hesse: (…) Ad ascoltare mi ha insegnato il fiume, (…) a porgere l’orecchio con animo tranquillo, con l’anima aperta, in attesa, senza passione, senza desiderio, senza giudicare, senza opinione”.
Talvolta quando l’empatia e il grado di collaborazione sono alti, addirittura gli antropologi vengono considerati “ come rappresentanti della memoria pubblica” ed allora è la volontà stessa degli intervistati di essere ascoltati che prevale sull'egemonia di conoscenza del ricercatore” che in ultima analisi riordina pur sempre la trama e l’ordito delle narrazioni che si generano.
Narrazioni sempre in equilibrio tra “ dolore e pudore, desiderio di comunicare e indicibilità sociale”: questa caratteristica rende talvolta problematica la pubblicazione delle interviste poiché si deve tener conto da un lato del dovere etico della divulgazione e dall'altro dalla possibile lesione della privacy dei soggetti coinvolti e dei loro familiari.
E’ stata la televisione che, a partire dagli anni ’80, ha forzato un po' questo equilibrio esibendo e spettacolarizzando con spudoratezza tanti racconti di vita che hanno trasformato” il dolore e la gioia, l'emozione della gente comune e della vita quotidiana in capacità istrioniche”.
L’intervista antropologica si pone costantemente in questa dimensione problematica in cui la posta in gioco è “talora conoscere e talora dar voce alle storia della vita”.
L'intervista è infatti “evento unico e irripetibile ed è evento che cambia”, come sottolinea Clemente, in grado di modificare cioè, nella dimensione del dialogo di vita, anche la prospettiva stessa della funzione dell’antropologo che nel caso specifico “ pone al centro il mondo visto attraverso la storia di una persona e pone le distanze da un uso esclusivamente strumentale della conoscenza”.
L’intervista biografica, come sottolinea Clemente, a differenza di quella a tema deve porre molta attenzione nel creare le condizioni migliori perché lo scambio soggettivo avvenga nella più spontanea libertà: l’intervistato è infatti enormemente più competente riguardo alla sua propria “storia di vita” di qualsiasi altro intervistatore e quest’ultimo dovrebbe cercare di non mettere mai in soggezione (anche involontariamente) chi sta “donando” la propria storia ma, piuttosto porsi in un ottica di umile ascolto: (…) “si faccia piccolo come un bambino, stia ad ascoltare e si lasci raccontare”.
Non dobbiamo quindi dimenticare la centralità dell’interlocutore che è innanzitutto “persona” degna di rispetto e portatrice di diritti e di valore in sé. Un concetto dimenticato in tante interviste televisive dove anche il dolore viene spettacolarizzato e morbosamente ricercato “frugando con le telecamere nelle pieghe dei volti”: Da questo atteggiamento l’ antropologia si distanzia e oppone alle leggi dello spettacolo l’etica del rispetto della persona e della “distanza prossemica” nell’ottica di un approccio ermeneutico dialogico che pone il fulcro del suo scopo sul “dare voce” e non su un”audience” da rincorrere ad ogni costo.
La tecnica dell’intervista si rivela come uno “strumento di rilevazione di tasselli di conoscenza” emotivamente coinvolgente per il ricercatore, nonostante la pratica e l’esperienza, una “conoscenza in atto” quella che si ricava dalle interviste, che può esser considerata anche come “sentimento, emozione e scambio umano”; anzi proprio la capacità di commuoversi, “muoversi assieme” dà l’idea della dimensione necessaria del racconto in cui l’intervistatore viene accompagnato come in un viaggio dove anche il dolore e il pianto di chi racconta e di chi ascolta diventano insieme strumento di conoscenza e di condivisione. E allora in questa ottica, il raccontare diventa un dono prezioso di cui prendersi cura e l’intervista, dal punto di vista degli antropologi “la forma fondamentale della conoscenza, dell’accumulazione del sapere, dell’esercizio di dialogo”.