DE RERUM NATURA - Stile
Lucrezio è l'autore del De rerum natura, un poema epico didascalico in esametri che presenta la filosofia epicurea in un linguaggio più concreto e accessibile alla cultura romana e conclude così il passaggio di questa dottrina dal mondo greco a quello latino. Il titolo del poema è la traduzione latina del greco Peri physeos, Sulla natura, titolo di numerose opere di filosofi greci ed anche dell’opera più importante di Epicuro, che costituì molto probabilmente la fonte principale del poeta latino. Esso tuttavia non era un poema ma un trattato in prosa. Sappiamo anzi da numerose testimonianze che Epicuro aveva espresso sulla poesia severe critiche e forti riserve, giudicando la lettura dei poeti non solo inutile per il raggiungimento della verità e della saggezza, ma addirittura nociva, in quanto tramite di favole menzognere e incentivo alle passioni. È Lucrezio stesso a chiarire e giustificare la scelta della poesia, che a prima vista potrebbe apparire contraddittoria con la sua adesione all’epicureismo: in una sua importante dichiarazione di poetica, egli si presenta ispirato e stimolato dalle muse a esplorare strade mai prima tentate da altri, e preannuncia con orgogliosa sicurezza la gloria che deriverà al suo poema sia dai contenuti sia dalla forma, capace d’illuminare argomenti così difficili grazie alla chiarezza dell’esposizione e al fascino ( lepos) della poesia ( I, vv. 927-934).
Subito dopo Lucrezio ribadisce mediante una celebre similitudine, che sarà ripresa da Torquato Tasso [Ita1] nel proemio della Gerusalemme liberata, il valore strumentale della forma poetica, destinata a mediare in modo efficace contenuti salutari ma difficili, che altrimenti riuscirebbero ostici al lettore: dice infatti di voler esporre in versi la dottrina epicurea così come i medici, dovendo somministrare ai bambini un’amara medicina, cospargono di miele l’orlo della tazza.
La difficoltà espressiva, dunque, viene affrontata da Lucrezio con l'adozione di una poetica del lepos, della "grazia", intesa come strumento per addolcire l'aridità concettuale della materia didascalica con la ricchezza delle figure e la piacevolezza delle immagini poetiche. Questa valorizzazione del carattere propriamente estetico della lingua poetica trova un riscontro nella coeva tendenza ad adeguarsi ai modelli ellenistici, esemplificata dai poetæ novi [Ita2]. Con questi Lucrezio ha in comune la tendenza a sviluppare creativamente i procedimenti allusivi di tipo dotto nei confronti degli autori precedenti, sia greci sia latini.
Lucrezio ha creato uno stile originalissimo, concreto, robusto e vigoroso, massiccio e solenne non privo di durezze apparentemente ipotetiche, ma dotate in realtà di una peculiare poeticità: di fronte alle imponenti e meravigliose opere del cosmo lo stile si eleva ad una sublimità grandiosa e austera, adeguata all'argomento, all'audacia speculativa e all'ardore missionario del poeta filosofo.
Le parole e le formule ricorrenti sono intimamente connesse con il tono didascalico e l'andamento argomentativo del discorso. Esse, pur discorsive e prosastiche, tuttavia grazie alla loro ripetitività vengono ad assumere un carattere formulare non alieno all'uso epico. L'uso di ripetizioni e di espressioni ridondanti dipendono anche dall'intenzione di ribadire i passaggi di rilievo dell'argomentazione. L'intento formativo dei versi porta l'autore ad adoperare un atteggiamento paraformulare nella definizione di determinate situazioni espressive: ripetendo, intenzionalmente o inconsciamente, certe espressioni in posizioni fisse, egli piega la varietà della propria invenzione all'esigenza di supportare mnemonicamente l'attenzione del lettore-discepolo. Analogamente, la presenza di vocaboli tratti dall'uso quotidiano, accanto ad altri "poetici" e arcaicizzanti, è da intendere probabilmente come una soluzione formale coerente con il contenuto "illuministico" del poema, espressione stilistica di un intento divulgativo. Il carattere che segna maggiormente il linguaggio e lo stile lucreziano è la patina arcaicizzante. L'autore si ricollega alla lingua dell'epos arcaico, con un cosciente proposito artistico, nella ridondanza e nell'esuberanza espressiva, nell'audacia delle immagini, nelle durezze e spezzature metriche e ritmiche, e soprattutto nell'abbondante uso dell'allitterazione e di altre figure di suono.
La potenza innovatrice del De rerum natura si manifesta anche nel lessico: il poema è un vero e proprio repertorio di termini scientifici e filosofici latini che per la prima volta traducono significati prima espressi con vocaboli greci. Lucrezio, infatti, lamenta più volte la patrii sermonis egestas (la povertà del patrio linguaggio), e per colmare le lacune si serve di preferenza di calchi, cioè di termini già presenti in latino, che assumono nuove accezioni tecnico-filosofiche; del tutto eccezionale è invece il ricorso a prestiti, cioè a parole greche traslitterate.
La grandezza del De rerum natura sta oltre che nella sostanza filosofica, anche nella poesia, nell'entusiasmo con cui Lucrezio accoglie il pensiero di Epicuro, che avrebbe condotto lo spirito umano alla vittoria della verità.
Cicerone ammirava in Lucrezio non solo l’acutezza del pensatore, ma anche grandi capacità di elaborazione artistica. La critica moderna giudicava lo stile del poeta troppo rude e legato all’uso arcaico, a tratti prosaico e ripetitivo, ma ha in seguito modificato questa prospettiva. Anche lo stile, come l’organizzazione della materia, doveva piegarsi al fine di persuadere il lettore. Si spiegano in questa luce le frequenti ripetizioni, considerate a lungo un segno di immaturità stilistica: alcuni concetti andavano riassunti in brevi formule facilmente ricordabili, come insegnava Epicuro, collocate nei punti chiave del poema. Anche l’invito all’attenzione del lettore doveva essere ripetuto spesso; alcuni termini della fisica epicurea e i nessi logici dovevano restare il più possibile fissi per consentire al lettore di familiarizzare con un linguaggio non facile. Inoltre alla lingua latina mancava la possibilità di esprimere certi concetti filosofici, e Lucrezio si trovò costretto a ricorrere a perifrasi nuove, a coniazioni e a riprendere vocaboli greci. La povertà della lingua latina era limitata però al lessico tecnico: Lucrezio sfrutta moltissimi vocaboli poetici della tradizione arcaica (soprattutto enniana) specie nel campo degli aggettivi composti, e molti ne crea egli stesso rivelando una spiccata propensione per nuovi avverbi e perifrasi. Dal patrimonio della poesia elevata romana trae le più caratteristiche forme dell’espressione: assonanze, allitterazioni, costrutti arcaici. L’esametro [Ita3] lucreziano si differenzia nettamente da quello arcaico di Ennio [Lat], rispetto al quale predilige l’incipit dattilico. Lucrezio dimostra di possedere una vasta conoscenza della letteratura greca, come testimoniano le riprese di Omero [Fr], Platone [En1], Eschilo [En2], Euripide, Callimaco [En3] e Antipatro. Il tratto distintivo dello stile di Lucrezio va individuato nella concretezza dell’espressione. Evidenza e vivacità descrittiva, visibilità e percettibilità degli oggetti intorno a cui si ragiona, corporalità dell’immaginario: questi caratteri dell’esposizione derivano dalla mancanza di un linguaggio astratto già pronto. L’espressione trae un guadagno formale da ciò: deve infatti supplire i vuoti verbali ricorrendo a molte immagini e a esempi esplicativi.
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