Natura, Scienza e Religio nel De Rerum Natura di Lucrezio di Irene Anna Rubino (braciu@yahoo.it), Francesca Gnan (fran.gnan@tiscali.it), Maria Sciancalepore (mariamiriam@katamail.com), Monica Sotira (monica.soti@yahoo.it)

SCIENZA - Teoria degli atomi

De rerum natura, libro II, 216-293

 

Altro tema fondamentale trattato da Lucrezio consiste in una vera e propria trattazione scientifica della teoria degli atomi: l’autore si sofferma così sulla dottrina del clinamen [Ita1] [Ita2] [En1], ovvero l’inclinazione che interviene a modificare la traiettoria verticale degli atomi, permettendo la formazione di ogni elemento, animato e non, esistente in natura. Il tema è affrontato attraverso la lettura (in traduzione italiana) di De rerum natura, II, 216-293.

 

Illud in his quoque te rebus cognoscere avemus,
corpora cum deorsum rectum per inane feruntur
ponderibus propriis, incerto tempore ferme
incertisque locis spatio depellere paulum,
tantum quod momen mutatum dicere possis. 220
quod nisi declinare solerent, omnia deorsum
imbris uti guttae caderent per inane profundum
nec foret offensus natus nec plaga creata
principiis; ita nihil umquam natura creasset.

Quod si forte aliquis credit graviora potesse 225
corpora, quo citius rectum per inane feruntur,
incidere ex supero levioribus atque ita plagas
gignere, quae possint genitalis reddere motus,
avius a vera longe ratione recedit.
nam per aquas quae cumque cadunt atque aera rarum, 230
haec pro ponderibus casus celerare necessest
propterea quia corpus aquae naturaque tenvis
aeris haud possunt aeque rem quamque morari,
sed citius cedunt gravioribus exsuperata;
at contra nulli de nulla parte neque ullo 235
tempore inane potest vacuum subsistere rei,
quin, sua quod natura petit, concedere pergat;
omnia qua propter debent per inane quietum
aeque ponderibus non aequis concita ferri.
haud igitur poterunt levioribus incidere umquam 240
ex supero graviora neque ictus gignere per se,
qui varient motus, per quos natura gerat res.
quare etiam atque etiam paulum inclinare necessest
corpora; nec plus quam minimum, ne fingere motus
obliquos videamur et id res vera refutet. 245
namque hoc in promptu manifestumque esse videmus,
pondera, quantum in <se> est, non posse obliqua meare,
ex supero cum praecipitant, quod cernere possis;
sed nihil omnino <recta> regione viai
declinare quis est qui possit cernere sese? 250

Denique si semper motu conectitur omnis
et vetere exoritur <motus> novus ordine certo
nec declinando faciunt primordia motus
principium quoddam, quod fati foedera rumpat,
ex infinito ne causam causa sequatur, 255
libera per terras unde haec animantibus exstat,
unde est haec, inquam, fatis avolsa voluntas,
per quam progredimur quo ducit quemque voluptas,
declinamus item motus nec tempore certo
nec regione loci certa, sed ubi ipsa tulit mens? 260
nam dubio procul his rebus sua cuique voluntas
principium dat et hinc motus per membra rigantur.
nonne vides etiam patefactis tempore puncto
carceribus non posse tamen prorumpere equorum
vim cupidam tam de subito quam mens avet ipsa? 265
omnis enim totum per corpus materiai
copia conciri debet, concita per artus
omnis ut studium mentis conixa sequatur;
ut videas initum motus a corde creari
ex animique voluntate id procedere primum, 270
inde dari porro per totum corpus et artus.
nec similest ut cum inpulsi procedimus ictu
viribus alterius magnis magnoque coactu;
nam tum materiem totius corporis omnem
perspicuumst nobis invitis ire rapique, 275
donec eam refrenavit per membra voluntas.
iamne vides igitur, quamquam vis extera multos
pellat et invitos cogat procedere saepe
praecipitesque rapi, tamen esse in pectore nostro
quiddam quod contra pugnare obstareque possit? 280
cuius ad arbitrium quoque copia materiai
cogitur inter dum flecti per membra per artus
et proiecta refrenatur retroque residit.
quare in seminibus quoque idem fateare necessest,
esse aliam praeter plagas et pondera causam 285
motibus, unde haec est nobis innata potestas,
de nihilo quoniam fieri nihil posse videmus.
pondus enim prohibet ne plagis omnia fiant
externa quasi vi; sed ne res ipsa necessum
intestinum habeat cunctis in rebus agendis 290
et devicta quasi cogatur ferre patique,
id facit exiguum clinamen principiorum
nec regione loci certa nec tempore certo.

 

A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo:

che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto sono tratti

in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato

e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino:

giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento.

Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso,

come gocce di pioggia, per il vuoto profondo,

né sarebbe nata collisione, né urto si sarebbe prodotto

tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla.

Ma, se per caso qualcuno crede che i corpi più pesanti,

più celermente movendosi in linea retta per il vuoto,

cadano dall'alto sui più leggeri e così producano urti

capaci di provocare movimenti generatori,

forviato si discosta lontano dalla verità.

Difatti tutte le cose che cadono per le acque e l'aria sottile,

esse, sì, bisogna che accelerino le cadute in proporzione dei pesi,

perché il corpo dell'acqua e la tenue natura dell'aria

non possono egualmente ritardare ogni cosa,

ma più celermente cedono se sono vinti da cose più pesanti.

Per contrario, da nessuna parte e in nessun tempo

lo spazio vuoto può sussistere quale base sotto alcuna cosa,

senza continuare a cedere, come esige la sua natura:

perciò attraverso l'inerte vuoto tutte le cose devono muoversi

con eguale velocità, quantunque siano di pesi non eguali.

Giammai, dunque, le più pesanti potranno cadere dall'alto

sulle più leggere, né potranno per sé stesse generare urti

che mutino i movimenti con cui la natura compie le sue operazioni.

Perciò, ancora e ancora, occorre che i corpi primi declinino

un poco; ma non più del minimo possibile, perché non sembri

che immaginiamo movimenti obliqui: cosa che la realtà confuterebbe.

Infatti ciò vediamo che è alla portata di tutti e manifesto:

che i corpi pesanti, per quanto è in loro, non possono muoversi obliquamente,

quando precipitano dall'alto, almeno fin dove è dato scorgere.

Ma, che essi non declinino assolutamente dalla linea retta

nella loro caduta, chi c'è che possa scorgerlo?

Infine, se sempre ogni movimento è concatenato

e sempre il nuovo nasce dal precedente con ordine certo,

né i primi principi deviando producono qualche inizio

di movimento che rompa i decreti del fato,

sì che causa non segua causa da tempo infinito,

donde proviene ai viventi sulla terra questa libera volontà,

donde deriva, dico, questa volontà strappata ai fati,

per cui procediamo dove il piacere guida ognuno di noi

e parimenti deviamo i nostri movimenti, non in un tempo determinato,

né in un determinato punto dello spazio, ma quando la mente di per sé ci ha spinti?

Difatti senza dubbio in ognuno dà principio a tali azioni la sua propria

volontà, e di qui i movimenti si diramano per le membra.

Non vedi anche come, nell'attimo in cui i cancelli del circo

sono aperti, non possa tuttavia la bramosa forza dei cavalli

prorompere così di colpo come la mente stessa desidera?

Tutta infatti, per l'intero corpo, la massa della materia

deve animarsi, sì che, una volta animata, per tutte le membra

segua con unanime sforzo il desiderio della mente.

Quindi puoi vedere che l'inizio del movimento si crea dal cuore,

e dalla volontà dell'animo esso procede primamente,

e di là si propaga poi per tutto il corpo e gli arti.

Né ciò è simile a quel che accade quando procediamo spinti da un urto,

per la forza possente e la possente costrizione di un altro.

Infatti allora è evidente che tutta la materia dell'intero corpo

si muove ed è trascinata contro il nostro volere,

finché non l'abbia raffrenata per le membra la volontà.

Non vedi dunque ora che, sebbene spesso una forza esterna

molti spinga e costringa a procedere senza che lo vogliano,

e a lasciarsi trascinare a precipizio, tuttavia c'è nel nostro petto

qualcosa che può lottar contro ed opporsi?

È pure a suo arbitrio che la massa della materia

è costretta talora a piegarsi per le membra, per gli arti,

e nel suo slancio è raffrenata, e torna indietro a star ferma.

Perciò anche negli atomi occorre che tu ammetta la stessa cosa,

cioè che, oltre agli urti e ai pesi, c'è un'altra causa

dei movimenti, donde proviene a noi questo innato potere,

giacché vediamo che nulla può nascere dal nulla.

Il peso infatti impedisce che tutte le cose avvengano per gli urti,

quasi per una forza esterna. Ma, che la mente stessa

non abbia una necessità interiore nel fare ogni cosa,

né, come debellata, sia costretta a sopportare e a patire,

ciò lo consegue un'esigua declinazione dei primi principi,    

in un punto non determinato dello spazio e in un tempo non determinato.

 

De rerum natura, libro V, 195-234

 

Inoltre, nel libro V, Lucrezio sviluppa un nuovo tema molto importante, che si collega sia alla sua visione religiosa, diametralmente opposta al provvidenzialismo stoico [Ita3] [Ita4] [En2] [Fr1], sia all’atomismo materialista [Sp1] [Ita5] [Ita6] [En3] [Ita7] della filosofia epicurea: il mondo non è stato creato per gli uomini. La prova evidente di tale affermazione risiede nel fatto che sulla terra vi sono molti luoghi inospitali, per il clima o la conformazione del territorio, e quindi inadatti a ospitare l’insediamento umano, se non dopo un duro lavoro, che si configura come un’estenuante lotta contro la natura avara ed invidiosa. Questa si presenta, infatti, come una matrigna crudele, che nega all’uomo ciò che concede, invece, agli animali, ovvero il necessario per il proprio sostentamento.

E l’indifferenza della natura nei confronti degli esseri umani è proprio la logica conseguenza della concezione religiosa dell’autore (e della dottrina epicurea in generale), secondo cui gli dei esistono, e sono perfetti e immortali, ma vivono confinati in aree collocate tra un mondo e l’altro, denominate, appunto, intermundia. Nella loro perfezione, che comporta, necessariamente, l’imperturbabilità (altrimenti sarebbero in tutto e per tutto uguali agli uomini), queste divinità non sono minimamente interessate alle vicende umane; ciò significa che il mondo non è stato creato da loro, ma, come tutti gli altri elementi, animati e non, della natura, si è formato da una casuale aggregazione di atomi, che un giorno, altrettanto casualmente, si disgregheranno: sono già evidenti, secondo Lucrezio, i segni della fine imminente, di cui l’autore parlerà ampiamente nel libro VI, quando affronterà l’argomento dei fenomeni naturali, erroneamente attribuiti all’ira divina, concludendo con un discorso sulle epidemie, che culmina nella tragica descrizione della peste di Atene.

Questa concezione, dal punto di vista fisico, antropologico e cosmico, presenta un’altra importante conseguenza: l’uomo non è al centro dell’universo, come ha sempre, presuntuosamente, pensato. Verso la fine del II libro, Lucrezio afferma, infatti, che nello spazio infinito esistono sicuramente infiniti altri mondi, formatisi, esattamente come il nostro, dalla casuale aggregazione di atomi e destinati, pertanto, ad avere una fine.

Le stesse argomentazioni che Lucrezio usava contro il provvidenzialismo stoico e contro l’antropocentrismo di molte dottrine filosofiche, sarebbero state riprese, a distanza di secoli, da Giacomo Leopardi, in polemica con il fiducioso ottimismo della corrente positivista [Ita8] [Ita9] [En4] [Fr2].

La naturale conseguenza di questa visione non può che essere, quindi, la consapevolezza dell’umana infelicità, che porterebbe l’autore ad una visione pessimistica dell’esistenza, com’è stato più volte sottolineato dai critici; ma non si può definire pessimista chi userà queste stesse argomentazioni per liberare gli uomini dalle paure più comuni, mostrando, quindi, come una soluzione al dolore esista, e si trovi, precisamente, nell’uso della ragione. Lo stesso scopo didascalico del poema mostra come Lucrezio abbia fiducia nella possibilità di cambiare la mentalità dei fruitori della sua opera, a cominciare dal Memmio di cui si è detto in precedenza, portandoli ad una maggiore consapevolezza e quindi, paradossalmente, alla serenità, che è la condizione propria del saggio epicureo.

E’ innegabile, tuttavia, che, rispetto alla radiosa immagine della natura incarnata dalla dea Venere, portatrice di vita, traspare, dai passi seguenti, una visione della natura decisamente più cupa, che contrasta fortemente con la luminosa gioia del proemio, in cui, pure, appariva il fantasma negativo delle guerre civili (come avverrà nel mondo delle Bucoliche virgiliane).

I versi seguenti riprendono, con lievi varianti, i vv. 177-181 del II libro; tali ripetizioni, erroneamente interpretate, in passato, come prove dell’incompiutezza dell’opera, non sono infrequenti in Lucrezio, il cui obiettivo primario è quello di insegnare; in questo senso la chiarezza espositiva è essenziale. Ne abbiamo un saggio proprio in questo passo, che prelude ad un argomentazione sviluppata in maniera estremamente ordinata e coerente, snodata in tre momenti, introdotti rispettivamente da principio(v. 200), praeterea (v. 218) e tum porro (v. 222), cui si aggiunge, come corollario, at…crescunt (v. 228). Per comodità didattica, il testo verrà ripartito cercando di seguire i vari momenti in cui è divisa la riflessione del poeta.

 

Quod [si] iam rerum ignorem primordia quae sint,              195
hoc tamen ex ipsis caeli rationibus ausim
confirmare aliisque ex rebus reddere multis,
nequaquam nobis divinitus esse paratam
naturam rerum: tanta stat praedita culpa.

 

Che se anche ignorassi quali siano i principi delle cose,                        195

questo, però, oserei affermare della semplice osservazione

delle cose celesti e dimostrare, da molti altri fenomeni,

che non è stata affatto creata per noi dal volere divino

la natura divina: di tanti difetti essa è piena.

 

Quod si: indica il passaggio ad un altro argomento, che si aggiunge ai precedenti.

Hoc: è oggetto di confirmare e reddere, ed è prolettico rispetto all’infinitiva epesegetica nequaquam…esse…rerum.

Ausim: forma arcaica di congiuntivo ottativo, in luogo di audeam.

Nequaquam…rerum: evidente la polemica antireligiosa di Lucrezio, grazie alla forte posizione di rilievo della negazione nequaquam e l’enfasi della frase posta su nobis, dativo di vantaggio, accortamente collocato accanto a divinitus. Fortemente in rilievo, grazie all’enjambement, l’espressione naturam rerum, che richiama il titolo dell’opera in un contesto quasi del tutto rovesciato rispetto al proemio.

Culpa: parola-chiave. Il tema della culpa naturae, nonostante le differenze, spesso sottolineate dai critici, tra l’ottimismo di Epicuro ed il pessimismo lucreziano, non è, infatti, assente nell’opera del maestro, mostrando la sostanziale fedeltà del poeta latino alla dottrina del filosofo.

 

Principio quantum caeli tegit impetus ingens,                                                  200
inde avidam partem montes silvaeque ferarum
possedere, tenent rupes vastaeque paludes
et mare, quod late terrarum distinet oras
.

Inde duas porro prope partis fervidus ardor
adsiduusque geli casus mortalibus aufert.                                                       205
quod super est arvi, tamen id natura sua vi
sentibus obducat, ni vis humana resistat
vitai causa valido consueta bidenti
ingemere et terram pressis proscindere aratris
.
Si non fecundas vertentes vomere glebas                                                        210
terraique solum subigentes cimus ad ortus.
sponte sua nequeant liquidas existere in auras.
et tamen inter dum magno quaesita labore
cum iam per terras frondent atque omnia florent,
aut nimiis torret fervoribus aetherius sol                                                        215
aut subiti peremunt imbris gelidaeque pruinae
flabraque ventorum violento turbine vexant
.

 

In primo luogo, di quanto la vasta estensione del cielo ricopre,                               200

una gran parte (la) occupano i monti e le foreste, dimore di belve,

la possiedono rupi e paludi desolate

e il mare che per ampio tratto separa le rive dei continenti. 

Poi, il calore torrido e l’incessante caduta delle nevi

sottraggono agli uomini quasi due terzi.                                                                   205

Quello che rimane di terra coltivabile, tuttavia la natura con la sua violenza

ricoprirebbe di rovi, se non si opponesse la forza dell’uomo,

abituata, per sopravvivere, a gemere sulla dura

marra e a fendere la terra premendo sull’aratro.

Se non li spingiamo alla nascita rendendo feconde le zolle                                     210

 voltandole con il vomere e domando il suolo della terra,

(i frutti) spontaneamente non potrebbero venir fuori nell’aria limpida;

e tuttavia, talvolta, i prodotti ottenuti con dura fatica,

 quando già si coprono di foglie per la campagna e sono tutti in fiore,

 o con l’eccessivo calore li brucia il sole etereo,                                                      215

 o li stroncano piogge improvvise e gelide brine,

 e le raffiche dei venti li devastano col violento turbine. 

 

Quantum (sott. terrae): accusativo dipendente da tegit. E’ prolettico rispetto ad inde del verso successivo.

Impetus ingens: allitterazione che sottolinea la vastità delle aree inospitali per l’uomo. Dall’espressione dipende il genitivo caeli. 

Avidam: l’ipallage rende alla perfezione l’idea di una natura aggressiva, per cui sembra proprio che non siano gli uomini a tenersi lontani dai luoghi inospitali qui descritti, ma che questi stessi luoghi, quasi personificati, divorino una parte consistente della superficie terrestre, sottraendola alla coltivazione, e quindi alla possibilità di costituire una fonte di sostentamento per l’uomo.

Possedere (=possederunt): perfetto gnomico. Posizione di rilievo grazie all’enjambement.

Distinet: efficacemente collocato tra terrarum e oras, sottolinea come il mare “disgiunga” le terre, la maggior parte delle quali sono, comunque, occupate da rupi e paludi (tenent rupes vastaeque paludes); tenent e distinet danno origine ad una figura etimologica, che evidenzia come tutti questi luoghi abbiano in comune il disagio dell’uomo, obiettivo della natura.

Fervidus ardor adsiduusque geli casu: l’allitterazione ardor adsiduusque rende quasi percepibile il calore insopportabile, che, insieme al freddo intenso (viene usato il termine raro, gelum, i, in luogo del più comune sostantivo della IV declinazione), sottraggano all’uomo zone abitabili. Il parallelismo tra i membri evidenzia la “congiura” degli elementi contro l’uomo, rilevata persino da Cicerone (De nat. deorum, 1,24) nell’opera citata precedentemente per mostrare un punto di vista completamente diverso da quello lucreziano

Inde: è riferito ancora a quantum.

Porro prope partis (=partes)/ pressis proscindere: allitterazioni, particolarmente frequenti in questi versi, che evidenziano la minaccia continua costituita dagli elementi naturali.

Arvi: genitivo partitivo, dipendente da quod, che indica quanto sia limitata la parte di terra coltivabile, di cui l’uomo potrebbe servirsi, se non intervenisse la natura.

Sua vi…vis humana: il chiasmo ed il poliptoto rendono ancora più efficace l’idea della lotta tra la violenza della natura (nel primo caso vis ha un’accezione negativa) e la forza dell’uomo (significato positivo di vis), che appare, qui, come un titano che, nonostante l’evidente sproporzione di forza, riesce, in qualche modo, a resistere (resistat) contro un’entità che sembra accanirsi contro la sua specie.

Vitai (=vitae) causa: complemento di fine.

Bidenti: è la zappa “a due denti”, detta “marra”.

Consueta…ingemere: il verbo, in posizione di rilievo grazie all’enjambement, sottolinea l’idea del lavoro come una sofferenza; nonostante Virgilio abbia ripreso questo passo in alcuni momenti di Georg., II, tuttavia capovolge completamente il tono e la concezione di fondo dell’attività agricola, vista come attività apportatrice di letizia, serenità e dignità, perfettamente in linea con la propaganda augustea di promozione delle attività tradizionali.

Vertentes vomere / solum subigientes / sponte sua / ventorum violento: le numerose allitterazioni scandiscono il passo, in cui prosegue la descrizione delle sofferenze dell’uomo, in lotta per la sua stessa sopravvivenza e contrastato, per giunta, dalla crudeltà della natura, che sembra provare gusto nel mettere continuamente in difficoltà gli esseri umani.

Fecundas…glebas: l’iperbato rende efficacemente l’idea di come sia il lavoro dell’uomo (vertentes vomere si trova al centro) a rendere feconda la terra, di per sé ostile; analogo significato è assunto dal participio subigentes.

Cimus (da cio): il verbo non ha complemento oggetto, mentre il successivo nequeant è privo di soggetto; in traduzione si è pensato all’integrazione con il sostantivo fetus (=semi, germogli), che si evince dal contesto, e può adempiere le funzioni di soggetto ed oggetto dei due verbi.

Quaesita: soggetto di fondent e florent, oltre che oggetto di torret e peremunt (=perimunt).

Aetherius: epiteto esornativo.

Aut…aut: polisindeto, in ripetizione anaforica, a creare l’accumulo degli elementi che si oppongono, con la loro violenza, alla vita umana.

 

Il seguente passo rappresenta la seconda prova a sostegno della tesi secondo cui il mondo non è stato creato per l’uomo, attraverso una serie di interrogative introdotte dall’anafora di cur, sostituito, nell’ultima interrogativa, da quare. Si può notare una sorta di climax ascendente, che dalla presenza di bestie feroci, attraverso la menzione delle malattie, culmina proprio con la presenza della mors immatura. Molti i punti di contatto con l’inno a Venere, in un contesto, però, capovolto:

·        Genus horriferum…ferarum: riprende il genus omne animantium, con la differenza che, mentre l’amore ammansisce anche le belve più temibili, qui viene sottolineata proprio la loro ferocia e, quindi, la loro pericolosità per l’uomo, per indicare la quale viene usato un aggettivo composto, horriferum (troviamo lo stesso verbo fero che, nel proemio, serviva a formare l’epiteto frugiferentis, riferito alla terra, vista in modo completamente diverso);

·        terraque marique : non indicano più la diffusione dell’amore, ma la distribuzione capillare delle belve feroci in ogni luogo, a minacciare costantemente l’esistenza dell’uomo;

·        alit: dal verbo deriva l’aggettivo alma, che nel proemio viene usato come epiteto riferito a Venere, portatrice di vita.

La natura appare, quindi, come nemica giurata dell’uomo, facendo di tutto per travolgerlo ed eliminarlo.

 

 Praeterea genus horriferum natura ferarum
humanae genti infestum terraque marique
cur alit atque auget? cur anni tempora morbos                                      220
adportant? quare mors inmatura vagatur?

 

E inoltre, perché la natura nutre ed accresce

sulla terra e nel mare la stirpe temibile delle bestie feroci,

ostile al genere umano? Perché le stagioni arrecano                              220

malattie? Perché si aggira (tra noi) la morte prematura?

 

Genus ferarum…humanae genti: chiasmo. In quanto corradicali, genus e genti danno origine a figura etimologica, che mette a confronto le due diverse categorie di esseri che popolano la terra, la prima delle quali viene protetta dalla natura, mentre la seconda è crudelmente osteggiata.

Alit atque auget: allitterazione che evidenzia il sostegno della natura al genus ferarum.

 

L’immagine del bambino, presente nei versi che seguono, ricorre molto spesso in Lucrezio, che  paragona  generalmente il puer agli uomini che non si sono ancora accostati alla dottrina epicurea; qui, invece, il bambino e, più precisamente, il neonato (come si evince, in particolare,  dall’espressione nixibus ex alvo matris) introduce il topos, largamente diffuso nella cultura greca e latina, e successivamente ripreso da Leopardi, del pianto del bambino come indizio delle future sofferenze cui l’uomo andrà necessariamente incontro.

 

Tum porro puer, ut saevis proiectus ab undis
navita, nudus humi iacet infans indigus omni
vitali auxilio, cum primum in luminis oras
nixibus ex alvo matris natura profudit,                                                     225
vagituque locum lugubri complet, ut aequumst
cui tantum in vita restet transire malorum.

E, inoltre, il bambino, come un naufrago buttato a riva dai flutti

furiosi, giace nudo a terra, incapace di parlare, bisognoso di ogni

aiuto vitale, non appena la natura l’ha gettato fuori dal grembo

della madre, con dolorosi sforzi, alle regioni della luce,                            225

e riempie il luogo di un triste vagito, com’è giusto

per colui al quale, in vita, rimangono tanti mali da sopportare.

 

Tum porro: formula di passaggio che introduce la terza argomentazione a sostegno della tesi lucreziana.

Navita: grazie all’enjambement viene posta in rilievo la figura del naufrago, altro topos molto frequente per indicare i pericoli e le insidie di cui è piena la vita umana, a cui Lucrezio paragona la figura del neonato.

Nudus humi iacet: Si allude ad un’usanza dei Romani, secondo cui il bambino, appena nato, veniva deposto nudo a terra; da lì lo avrebbe dovuto raccogliere il padre, sancendo, con questo gesto, il riconoscimento del bambino stesso. Il verbo allittera con i successivi infans (da in + fari,indica “colui che non parla”) ed indigus (aggettivo di uso raro e poetico, in luogo del più comune indigens) qui costruito con l’ablativo (omni vitali auxilio), anziché con il genitivo.

In luminis oras: clausola ricorrente in Lucrezio (cfr. I, 22, ma in un contesto completamente rovesciato).

Nixibus: ablativo strumentale. I dolori del parto accompagnano e preludono alle sofferenze future dell’individuo, di cui il primo pianto è un segno inequivocabile. Efficace, sempre all’interno del v. 225, l’accostamento tra matris e natura, che assume lo stesso significato che Leopardi trasmetterà nei versi della Ginestra, parlando di colei “ch’è madre di parto, e di voler matrigna”.

Vagituque…aecumst: il v. 226 è caratterizzato dalla presenza di suoni cupi, prodotti dalla sovrabbondanza allitterante di “u”, a sottolineare il fatto che la nascita è tutt’altro che un momento di gioia. Troviamo, inoltre, a contribuire a tale effetto, l’allitterazione locum lugubri.

Restet: il verbo è qui costruito con l’infinito (transire), in alternativa alla costruzione con ut + congiuntivo.

 

At variae crescunt pecudes armenta feraeque
nec crepitacillis opus est nec cuiquam adhibendast
almae nutricis blanda atque infracta loquella                                        230
nec varias quaerunt vestes pro tempore caeli,
denique non armis opus est, non moenibus altis,
qui sua tutentur, quando omnibus omnia large
tellus ipsa parit naturaque daedala rerum.

 

Ma crescono animali di vario tipo,

né c’è bisogno per loro di sonaglini e nessuno deve usare

il dolce e balbettante linguaggio della buona nutrice                                 230

né hanno bisogno di vesti diverse a seconda delle stagioni,

infine non hanno bisogno di armi, né di alte mura

per difendere i propri beni, poiché la terra, da sola, e la natura,

ingegnosa artefice di cose, producono tutto in abbondanza per tutti.

 

At: forte valore avversativo; introduce il corollario alla riflessione del poeta.

Pecudes armenta: asindeto. L’espressione, che sembra riprendere I, 14, vuole indicare proprio negli animali le creature predilette dalla natura, che fornisce ad essi ogni cosa, mentre l’uomo deve procurarsi ciò di cui ha bisogno attraverso continui sacrifici.

Crepitacillis: diminutivo di crepitaculum (da crepitare); è un dativo retto da opus est.

Nec…nec…nec: polisindeto in ripetizione anaforica, che enumera una serie di elementi che l’uomo, con la sua fatica, deve costruirsi, se vuole sopravvivere, mentre le ferae non hanno bisogno di nulla che non sia stato già fornito loro dalla natura.

Almae: l’aggettivo, una chiara ripresa di I, 2, indica le qualità proprie della nutrice.

Infracta (da infrango): si traduce, letteralmente, con “rotta”.

Qui…utentur: relativa impropria con valore finale.

Omnibus omnia: poliptoto che evidenzia i beni forniti dalla natura a tutte le sue creature, ad eccezione dell’uomo.

Daedala: altra chiara ripresa del proemio (v. 7), sempre in riferimento a tellus, con cui forma un iperbato, in cui leggiamo un leggero sarcasmo da parte dell’autore, che constata, con amarezza, come la terra s’industri a mettere in difficoltà l’uomo, con un atteggiamento sottilmente perverso.

   9/12   

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