De rerum natura, libro I, 62-79
L’obiettivo principale di Lucrezio, preannunciato sin dal proemio, è quello di liberare gli uomini dalle loro assurde paure, in primis la paura della morte. La maggior parte degli individui, infatti, paventa un aldilà che la religione tradizionale ha sempre rappresentato come un luogo in cui venivano espiate, mediante terribili punizioni, le colpe commesse in vita. La morte, invece, secondo l’atomismo epicureo, non è che il momento in cui avviene la disgregazione degli atomi che costituiscono il nostro corpo, e, con essi, di quelli che costituiscono la nostra anima. L’anima, quindi, non sopravvive al corpo, perché è costituita della stessa materia, e muore, quindi, con esso.
Ma se la morte è la fine di tutto, che cosa c’è da temere? Infatti non avvertiamo né dolore, dal momento che le nostre sensazioni (formate da filamenti sottilissimi che si diramano dagli atomi, i cosiddetti simulacra) muoiono con gli atomi, né ci sarà, ad attenderci, una tremenda punizione, dal momento che anima ed animus si saranno disgregati, e nessuna divinità, beata negli intermundia, si occuperà di premiarci per i nostri meriti o punirci per le nostre colpe.
Più che il timore del dolore, sembra che sia la paura degli Inferi a toccare maggiormente gli uomini; ed ecco perché il discorso di Lucrezio si sofferma in particolare su questo aspetto, sulle favolette che la religio racconta agli uomini per tenerli sotto controllo e dominarli per mezzo della paura, impedendo loro di conoscere la verità e, quindi, di liberarsi per sempre dalla schiavitù del terrore e dell’ignoranza.
Fortunatamente Epicuro, con la sua dottrina, è intervenuto a salvare l’umanità; come un Prometeo che osò sfidare gli dei per portare il fuoco agli esseri umani, il filosofo sfida la Religio, rappresentata come un mostro orribile, portando agli uomini il lume della conoscenza e della verità, grazie al quale l’umanità potrà riscattarsi dal suo torpore e sottomettere per sempre la Religio. La scena assume così una dimensione epica, in cui Epicuro è rappresentato come un vero e proprio eroe in lotta contro una mostruosa entità, per il bene dell’umanità intera.
Possiamo dividere il passo seguente in tre sequenze:
vv. 62-71: viene descritta la situazione iniziale degli uomini, schiavi del terribile mostro della superstizione; mentre costoro sono paralizzati dal terrore, un solo uomo, Epicuro, trova il coraggio di contrastarla. La sequenza è costituita da un unico periodo, reso compatto e più ampio dalla presenza di vari enjambements.
vv. 72-77: viene descritta la vittoria dell’eroe sul mostro ed il suo viaggio oltre i confini del mondo per portare la verità agli uomini.
vv. 78-79: avviene il ribaltamento della situazione iniziale: ora è l’umanità, elevata al cielo, a calpestare la religio.
Humana ante oculos foede cum vita iaceret
in terris oppressa gravi sub religione,
quae caput a caeli regionibus ostendebat
horribili super aspectu mortalibus instans, 65
primum Graius homo mortalis tollere contra
est oculos ausus primusque obsistere contra;
quem neque fama deum nec fulmina nec minitanti
murmure compressit caelum, sed eo magis acre
inritat animi virtutem, effringere ut arta 70
naturae primus portarum claustra cupiret.
Mentre l’umanità vergognosamente giaceva sulla terra
Davanti agli occhi (di tutti) oppressa sotto il grave peso della superstizione,
che dalle regioni del cielo mostrava il suo capo
incombendo dall’alto sui mortali con il suo terribile aspetto,
per la prima volta un uomo greco osò sollevarle contro
gli occhi mortali, e per primo opporsi ad essa;
e non lo intimorirono né le dicerie degli dei, né i fulmini, né
il cielo con il suo mormorio minaccioso, anzi (tutto ciò) eccitò
ancor di più l’ardente virtù del suo animo, da desiderare
di spezzare per primo gli stretti serrami delle porte della natura.
Humana…iaceret: da notare il rilievo dato all’aggettivo, data la posizione in apertura di verso , possibile grazie all’anastrofe con il cum narrativo-temporale, e all’iperbato. L’espressione indica che tutto il genere umano era oppresso dal peso degradante della religio. L’avverbio foede può riferirsi sia al verbo iaceret, sia ad oculos. Rilevante anche il significato di iaceret, che trasmette immediatamente l’idea di un’umanità ben poco “umana”, ma costretta, piuttosto, a strisciare sulla terra.
In terris: espressione fortemente marcata dall’enjambement e dall’antitesi con a caeli del verso successivo. Lucrezio descrive impietosamente la situazione dell’umanità prima dell’arrivo di Epicuro, in cui il rilievo dato ad in terris, il participio oppressa e l’aggettivo gravi (riferito a religione) sottolineano l’oppressione a cui la religione sottoponeva gli uomini, costringendoli quasi a strisciare come vermi, in modo vergognoso (foede). Il clima cupo, tetro ed opprimente è reso efficacemente anche dal ritmo che il poeta attribuisce a questi versi, la cui lentezza accentua l’effetto del gravare della religio sugli uomini.
Religione: parola-chiave, posta in rilievo dalla posizione a fine verso. Mentre la lingua latina fa una distinzione tra religio e superstitio, distinzione adottata da molti autori, tra cui Cicerone, Lucrezio non usa mai il termine superstitio. Dal momento che considera la religio solo nella sua accezione negativa, ovvero di superstizione, falsa credenza. L’etimologia del termine superstitio è solo richiamata, nel v. 65, dal nesso super (usato avverbialmente) + instans (participio presente di insto, as, stiti, are).
Primum: con questo avverbio, ripreso, nel verso successivo, dall’aggettivo primus, Lucrezio vuole sottolineare il primato di Epicuro, rendendo ancora più straordinaria la sua impresa di liberazione dell’umanità dalla schiavitù. In realtà, per “entusiasmo o poetica libertà”, il poeta commette un errore, perché altri, prima di Epicuro, e soprattutto Democrito, processerat extra moenia mundi.
Graius homo: benché questo sia solo il primo di una serie di elogi di Epicuro, di cui il poema è disseminato, solo una volta (III, 1302) Lucrezio chiama il filosofo con il suo nome; in questo caso specifico, però, la parola homo evidenzia maggiormente la portata della vittoria che un mortale, pur sempre fragile e limitato, ha riportato contro un mostro orribile ed infinitamente più potente. Tale concetto è ulteriormente sottolineato dall’accostamento tra homo e mortalis (=mortales, riferito a oculos, con cui forma un ampio iperbato), che, grazie al poliptoto con il precedente mortalibus, evidenzia l’enorme differenza tra i mortali che la religio schiaccia sotto i suoi piedi ed Epicuro che, pur avendo la stessa natura mortale degli altri uomini, compie un gesto che va oltre i limiti dell’umano.
Contra…contra: l’epifora sottolinea il titanismo di Epicuro, il piccolo mortale che osò sfidare la religio. Efficace, in tal senso, anche la scelta del verbo ausus est, da cui dipendono gli infiniti tollere (oculos) ed obsistere, entrambi seguiti da contra. I vv. 66-67 furono quelli che maggiormente suggestionarono Leopardi [Ita1] [Ita2] [Ita3] [En1] [Fr1] [Fr2] [Sp1] [Sp2], che inserì nella sua Ginestra (vv.111-113) un richiamo molto evidente ad essi.
Quem…caelum: il periodo si apre con un nesso relativo (=et eum) ed è caratterizzato da una serie di figure retoriche: il polisindeto in ripetizione anaforica neque…nec…nec, che sottolinea, in una sorta di “micro-catalogo”, tutti gli elementi contro cui Epicuro dovette scontrarsi, e le allitterazioni fama fulmina, minitanti murmure, compressit caelum; murmure (evidenziato anche dall’enjambement) ha anche valore onomatopeico , atto a rendere l’effetto di terrore proveniente dal cielo, che come una pesante cappa incombe sui mortali. Il fulmine ed il tuono, in particolare, erano interpretati, per ignoranza, come segni dell’ira divina (basti pensare alla tradizionale rappresentazione di Zeus-Giove), tanto da rendere necessaria, per il poeta, un’ampia trattazione dei fenomeni meteorologici nell’ultima parte del poema. Deum (=deorum) è un genitivo oggettivo.
Sed…virtutem: non solo ciò che atterrisce gli altri uomini non spaventa minimamente Epicuro, ma, anzi, tutto ciò costituisce un movente ancora più forte alla sua straordinaria impresa, sottolineata, in questi versi, dall’iperbato acrem…virtutem (in cui si noti la pregnanza dell’aggettivo). Inritat (=inritavit): forma di perfetto sincopato.
Effringere ut…cupiret (=cuperet): anastrofe + iperbato; entrambe le figure sottolineano il valore dell’infinito effringere (composto di frango), dipendente dalla consecutiva introdotta da ut.
Arta… claustra: ampio iperbato, oggetto di effringere, che contiene al suo interno l’espressione naturae portarum, oltre al predicativo del soggetto primus, che ribadisce ancora una volta l’idea del primato di Epicuro. Tale disposizione della frase rende perfettamente l’immagine della religione che imprigiona la natura, impedendole di rivelarsi liberamente agli uomini. Estremamente efficace anche la scelta della metafora delle “porte della natura”, intese come barriere invalicabili che il filosofo riuscirà a superare, spezzandone i serrami, così come, successivamente, riuscirà a superare anche le flammantia moenia mundi (v. 73).
Non è affatto insignificante, inoltre, la scelta dell’aggettivo, che compare anche in IV, 5-6, in cui si parla di artis nodis (religionum animum) che Lucrezio, si accinge ad exsolvere, liberando gli uomini dall’ignoranza. Anche se l’azione del filosofo assume una dimensione più epica ed è evidenziata da termini molto più forti (basti pensare al confronto fra effringere ed exsolvere), possiamo parlare di un vero e proprio paragone, seppur non così esplicito, tra Lucrezio ed il suo maestro, perché l’importanza del gesto di Epicuro per l’umanità è pari a quella che il poeta latino spera abbia la sua opera per i Romani. Viene inoltre sottolineata, per entrambi, l’idea del primato, che nel caso di Lucrezio assume un valore artistico-letterario.
Primus portarum, claustra cupiret: allitterazione; il verbo sottolinea come la gloriosa impresa di Epicuro, compiuta per il bene dell’umanità intera, sia stata dettata da una profonda esigenza del suo animo, dettata dalla sua acrem virtutem.
Ergo vivida vis animi pervicit et extra
processit longe flammantia moenia mundi
atque omne immensum peragravit mente animoque,
unde refert nobis victor quid possit oriri, 75
quid nequeat, finita potestas denique cuique
qua nam sit ratione atque alte terminus haerens.
Così trionfò la vigorosa forza del suo ingegno e si spinse
lontano, al di là delle fiammanti mura del mondo
e percorse con la mente e col cuore tutta l’immensità,
da cui, vincitore, riferisce a noi che cosa possa nascere, 75
che cosa non possa, e, infine, per quale legge ogni essere
abbia un potere definito ed un termine fisso.
Ergo vivida vis…pervicit: la vittoria di Epicuro viene presentata come una naturale conseguenza della sua virtù e del suo coraggio, oltre che della sua inesauribile sete di conoscenza, che lo spingerà oltre i confini del mondo. Vivida vis: allitterazione + figura etimologica, figure che sottolineano la virtù di Epicureo.
Exra…flammantia moenia mundi: con l’espressione (in cui notiamo l’allitterazione moenia mundi) si vuole indicare la sfera del fuoco, ritenuta erroneamente da alcuni filosofi il confine estremo dell’universo, di cui Lucrezio spiegherà l’origine in V, 454 e sgg. Nonostante l’aspetto minaccioso delle fiamme, Epicuro non si lasciò impressionare e proseguì nella sua missione. Extra ha valore di preposizione.
Omne immensum: possibile un’interpretazione alternativa a quella fornita in traduzione; si può infatti vedere omne come aggettivo sostantivato (cfr. gr..tò pàn) ed immensum come attributo, da rendere con “l’immenso universo”.
Peragravit mente animoque: il verbo è desunto dal linguaggio della vita dei campi (per+agros), mentre l’espressione mente animoque potrebbe essere interpretata come un’endiadi, e quindi tradotta con “ col suo pensiero possente” o “con la potenza del suo ingegno”.
Unde…haerens: questi versi, identici o con qualche lieve modifica, si trovano anche in I, 594-596; V, 88-90 e VI, 64-66, come per sottolineare – quale tema dominante – che le leggi della natura sono fisse ed immutabili. Tutto avviene secondo un procedimento meccanico ed automatico, per cui non c’è bisogno dell’intervento divino. L’avverbio di moto da luogo unde si riferisce alle regioni extra moenia mundi che Epicuro ha esplorato. Il verbo refert è utilizzato nel linguaggio bellico per indicare il bottino con cui il vincitore torna carico: in questo caso, si tratta di un bottino di conoscenze, scandite da una serie di interrogative indirette introdotte dalla ripetizione anaforica di quid (quid possit oriri, quid nequeat – sott.: oriri), che subisce una variazione nella terza interrogativa (qua ratione cuique sit), che presenta una costruzione in anastrofe. Cuique è dativo di possesso.
Il bottino ottenuto da Lucrezio è però destinato all’umanità intera; ecco perché il dativo di termine nobis (v. 75) può assumere una sfumatura di vantaggio.
Importante, inoltre, la parola terminus, con cui si indicava, propriamente, la pietra posta tra due campi per delimitarne il confine; qui designa il limite contro il quale urta ogni cosa, concetto fondamentale nel pensiero lucreziano, dal momento che la maggiore paura dell’uomo comune è rappresentata dalla morte, non in quanto fine della vita, ma in quanto inizio di una permanenza eterna dell’anima in un oltretomba che incute timore.
Quare religio pedibus subiecta vicissim
opteritur, nos exaequat victoria caelo.
Per questo la religione, a sua volta, messa sotto i piedi
Viene calpestata, e la vittoria ci eguaglia al cielo.
Quare: come il precedente ergo (v. 72) è un nesso tipicamente prosastico, che riassume il senso dell’impresa di Epicuro: svelare le leggi della natura, liberando gli uomini dalle tenebre dell’ignoranza, da cui nasce la superstizione. Questo non significa affatto negare l’esistenza degli dei, ma, semplicemente, ridimensionare il loro ruolo, affermando la loro assoluta estraneità alle vicende umane.
Pedibus…opteritur (arcaico per obteritur): l’enjambement amplifica l’importanza della vittoria dell’umanità sulla religio, attraverso un totale ribaltamento della situazione iniziale, sottolineato dall’avverbio vicissim. Pedibus è dativo dipendente dal participio perfetto subiecta (riferito a religio).
Nos…caelo: alla triste rappresentazione dell’umanità schiacciata sotto il peso della superstizione, con cui si apre il passo, corrisponde, alla fine, il canto di vittoria per la conseguita liberazione. Numerosi, a questo proposito, i termini tratti dal linguaggio dei combattenti, con particolare insistenza sull’idea di vittoria, marcata dal verbo pervicit (intensivo rispetto a vinco), dal predicativo victor (v.75) e dal sostantivo victoria (v. 79), che danno origine ad una figura etimologica.
Il testo di questo primo libro andrà confrontato con un altro encomio del filosofo (III, 1-30), del quale si presenterà la lettura in italiano.
E tenebris tantis tam clarum extollere lumen
qui primus potuisti inlustrans commoda vitae,
te sequor, o Graiae gentis decus, inque tuis nunc
ficta pedum pono pressis vestigia signis,
non ita certandi cupidus quam propter amorem
quod te imitari aveo; quid enim contendat hirundo
cycnis, aut quid nam tremulis facere artubus haedi
consimile in cursu possint et fortis equi vis?
Tu, pater, es rerum inventor, tu patria nobis
suppeditas praecepta, tuisque ex, inclute, chartis,
floriferis ut apes in saltibus omnia libant,
omnia nos itidem depascimur aurea dicta,
aurea, perpetua semper dignissima vita.
Nam simul ac ratio tua coepit vociferari
naturam rerum divina mente coorta
diffugiunt animi terrores, moenia mundi
discedunt. totum video per inane geri res.
Apparet divum numen sedesque quietae,
quas neque concutiunt venti nec nubila nimbis
aspergunt neque nix acri concreta pruina
cana cadens violat semper[que] innubilus aether
integit et large diffuso lumine ridet:
omnia suppeditat porro natura neque ulla
res animi pacem delibat tempore in ullo.
At contra nusquam apparent Acherusia templa,
nec tellus obstat quin omnia dispiciantur,
sub pedibus quae cumque infra per inane geruntur.
His ibi me rebus quaedam divina voluptas
percipit atque horror, quod sic natura tua vi
tam manifesta patens ex omni parte retecta est.
O tu, che in mezzo a così grandi tenebre primo potesti
levare una luce tanto chiara, illuminando le gioie della vita,
io seguo te, o onore della gente greca, e nelle orme
da te impresse pongo ora ferme le piante dei miei piedi,
non tanto perché io voglia gareggiare con te, quanto perché anelo
a imitarti per amore. Come potrebbe infatti contendere la rondine
coi cigni? O come potrebbero mai i capretti dalle tremule
membra emulare nella corsa l'impeto di un forte cavallo?
Tu padre sei, scopritore del vero; tu paterni precetti
ci prodighi, e, come le api nei pascoli fioriti
suggono per ogni dove, così noi nei tuoi scritti,
o glorioso, ci pasciamo di tutti gli aurei detti,
aurei, sempre degnissimi di vita perpetua.
Infatti, appena la tua dottrina comincia a svelare a gran voce
la natura quale è sorta dalla tua mente divina,
fuggon via i terrori dell'animo, le mura del mondo
si disserrano, vedo le cose svolgersi attraverso tutto il vuoto.
Appaiono la potenza degli dèi e le sedi quiete,
che né venti scuotono, né nuvole cospargono
di piogge, né neve vìola, condensata da gelo acuto,
candida cadendo; ‹ma› un etere sempre senza nubi
le ricopre, e ride di luce largamente diffusa.
E tutto fornisce la natura, né alcuna
cosa in alcun tempo intacca la pace dell'animo.
Ma per contro in nessun luogo appaiono le regioni acherontee,
né la terra impedisce che si discerna tutto quanto
si svolge sotto i miei piedi, laggiù, attraverso il vuoto.
Per queste cose mi prende allora un certo divino piacere
e un brivido, perché così per la potenza della tua mente la natura,
tanto manifestamente dischiudendosi, in ogni parte è stata rivelata.
Si faranno tuttavia notare in lingua latina alcune espressioni lucreziane, come ad esempio l’opposizione tenebris/lumen (Epicuro rappresenta la luce), gli appellativi di pater e inventor rerum, i termini ratio (il pensiero epicureo) e terrores (le vane paure degli uomini). Da notare è anche l’apostrofe iniziale, che ha sapore di un’invocazione: si assite dunque ad un vero e proprio processo di divinizzazione del filosofo.
Altri elogi del filosofo si trovano in V, 1-54 e VI, 1-34.
Quis potis est dignum pollenti pectore carmen
condere pro rerum maiestate hisque repertis?
quisve valet verbis tantum, qui fingere laudes
pro meritis eius possit, qui talia nobis
pectore parta suo quaesitaque praemia liquit?
nemo, ut opinor, erit mortali corpore cretus.
nam si, ut ipsa petit maiestas cognita rerum,
dicendum est, deus ille fuit, deus, inclyte Memmi,
qui princeps vitae rationem invenit eam quae
nunc appellatur sapientia, quique per artem
fluctibus et tantis vitam tantisque tenebris
in tam tranquillo et tam clara luce locavit.
confer enim divina aliorum antiqua reperta.
namque Ceres fertur fruges Liberque liquoris
vitigeni laticem mortalibus instituisse;
cum tamen his posset sine rebus vita manere,
ut fama est aliquas etiam nunc vivere gentis.
at bene non poterat sine puro pectore vivi;
quo magis hic merito nobis deus esse videtur,
ex quo nunc etiam per magnas didita gentis
dulcia permulcent animos solacia vitae.
Herculis antistare autem si facta putabis,
longius a vera multo ratione ferere.
quid Nemeaeus enim nobis nunc magnus hiatus
ille leonis obesset et horrens Arcadius sus,
tanto opere officerent nobis Stymphala colentes?
denique quid Cretae taurus Lernaeaque pestis
hydra venenatis posset vallata colubris?
quidve tripectora tergemini vis Geryonai
et Diomedis equi spirantes naribus ignem
Thracia Bistoniasque plagas atque Ismara propter
aureaque Hesperidum servans fulgentia mala,
asper, acerba tuens, immani corpore serpens
arboris amplexus stirpes? quid denique obesset
propter Atlanteum litus pelagique severa,
quo neque noster adit quisquam nec barbarus audet?
cetera de genere hoc quae sunt portenta perempta,
si non victa forent, quid tandem viva nocerent?
nil, ut opinor: ita ad satiatem terra ferarum
nunc etiam scatit et trepido terrore repleta est
per nemora ac montes magnos silvasque profundas;
quae loca vitandi plerumque est nostra potestas.
at nisi purgatumst pectus, quae proelia nobis
atque pericula tumst ingratis insinuandum!
quantae tum scindunt hominem cuppedinis acres
sollicitum curae quantique perinde timores!
quidve superbia spurcitia ac petulantia? Quantas
efficiunt clades! quid luxus desidiaeque?
haec igitur qui cuncta subegerit ex animoque
expulerit dictis, non armis, nonne decebit
hunc hominem numero divom dignarier esse?
cum bene praesertim multa ac divinitus ipsis
iam mortalibus e divis dare dicta suerit
atque omnem rerum naturam pandere dictis.
Chi può con mente possente comporre un canto
degno della maestà delle cose e di queste scoperte?
O chi vale con la parola tanto da poter foggiare
lodi che siano all'altezza dei meriti di colui
che ci lasciò tali doni, cercati ‹e› trovati dalla sua mente?
Nessuno, io credo, fra i nati da corpo mortale.
Infatti, se si deve parlare come richiede la conosciuta
maestà delle cose, un dio fu, un dio, o nobile Memmio,
colui che primo scoperse quella regola di vita
che ora è chiamata sapienza, e con la scienza
portò la vita da flutti così grandi e da così grandi tenebre
in tanta tranquillità e in tanto chiara luce.
Confronta, infatti, le divine scoperte che altri fecero in antico.
E in effetti si narra che Cerere le messi e Libero la bevanda
prodotta col succo della vite abbian fatto conoscere ai mortali;
eppure la vita avrebbe potuto durare senza queste cose,
come è fama che alcune genti vivano tuttora.
Ma vivere bene non si poteva senza mente pura;
quindi a maggior ragione ci appare un dio questi
per opera del quale anche ora, diffuse tra le grandi nazioni,
le dolci consolazioni della vita placano gli animi.
E se crederai che le gesta di Ercole siano superiori,
andrai molto più lontano dalla verità.
Quale danno, infatti, a noi ora potrebbero recare le grandi
fauci del leone nemeo e l'ispido cinghiale d'Arcadia?
E ancora, che potrebbero fare il toro di Creta e il flagello
di Lerna, l'idra cinta di un baluardo di velenosi serpenti?
Che mai, coi suoi tre petti, la forza del triplice Gerione
tanto danno farebbero a noi ‹gli uccelli› abitatori ‹del lago›
di Stinfalo e i cavalli del tracio Diomede che dalle froge
spiravano fuoco, presso le contrade bistonie e l'Ismaro?
E il guardiano delle auree fulgide mele delle Esperidi,
il feroce serpente, che torvo guatava, con l'immane corpo
avvolto intorno al tronco dell'albero, che danno alfine farebbe,
lì, presso il lido di Atlante e le severe distese del mare,
dove nessuno di noi si spinge, né alcun barbaro s'avventura?
E tutti gli altri mostri di questo genere che furono sterminati,
se non fossero stati vinti, in che, di grazia, nocerebbero vivi?
In nulla, io credo: a tal punto la terra tuttora
pullula di fiere a sazietà, ed è piena di trepido terrore,
per boschi e monti grandi e selve profonde;
luoghi che per lo più è in nostro potere evitare.
Ma, se non è purificato l'animo, in quali battaglie
e pericoli dobbiamo allora a malincuore inoltrarci!
Che acuti assilli di desiderio allora dilaniano
l'uomo angosciato e, insieme, che timori!
E la superbia, la sordida avarizia e l'insolenza?
Quali rovine producono! E il lusso e la pigrizia?
L'uomo, dunque, che ha soggiogato tutti questi mali
e li ha scacciati dall'animo coi detti, non con le armi,
non converrà stimarlo degno d'essere annoverato fra gli dèi?
Tanto più che bene e divinamente egli fu solito proferire
molti detti sugli stessi dèi immortali
e coi suoi detti rivelare tutta la natura.
Primae frugiparos fetus mortalibus aegris
dididerunt quondam praeclaro nomine Athenae
et recreaverunt vitam legesque rogarunt
et primae dederunt solacia dulcia vitae,
cum genuere virum tali cum corde repertum,
omnia veridico qui quondam ex ore profudit;
cuius et extincti propter divina reperta
divolgata vetus iam ad caelum gloria fertur.
nam cum vidit hic ad victum quae flagitat usus
omnia iam ferme mortalibus esse parata
et, pro quam possent, vitam consistere tutam,
divitiis homines et honore et laude potentis
affluere atque bona gnatorum excellere fama,
nec minus esse domi cuiquam tamen anxia cordi,
atque animi ingratis vitam vexare sine ulla
pausa atque infestis cogi saevire querellis,
intellegit ibi vitium vas efficere ipsum
omniaque illius vitio corrumpier intus,
quae conlata foris et commoda cumque venirent;
partim quod fluxum pertusumque esse videbat,
ut nulla posset ratione explerier umquam,
partim quod taetro quasi conspurcare sapore
omnia cernebat, quae cumque receperat, intus.
veridicis igitur purgavit pectora dictis
et finem statuit cuppedinis atque timoris
exposuitque bonum summum, quo tendimus omnes,
quid foret, atque viam monstravit, tramite parvo
qua possemus ad id recto contendere cursu,
quidve mali foret in rebus mortalibus passim,
quod fieret naturali varieque volaret
seu casu seu vi, quod sic natura parasset,
et quibus e portis occurri cuique deceret,
et genus humanum frustra plerumque probavit
volvere curarum tristis in pectore fluctus.
Per prima Atene dal nome illustre dispensò un giorno
i frutti delle messi ai mortali infelici
e rinnovò la vita e istituì le leggi;
e per prima dette le dolci consolazioni della vita,
quando generò l'uomo dotato di tale mente,
che un giorno rivelò con veridica bocca ogni cosa;
sebbene egli sia morto, per le divine sue scoperte
la sua gloria, divulgata in antico, ormai s'innalza al cielo.
Difatti, quando egli vide che le cose richieste dal bisogno
per il sostentamento erano già quasi tutte assicurate ai mortali
e che, per quanto era possibile, la loro vita era salda e sicura;
che gli uomini potenti abbondavano di ricchezze e onore e fama,
e s'ergevano orgogliosi per il buon nome dei figli,
e tuttavia nessuno nell'intimità aveva meno inquieto il cuore,
e, a dispetto dell'animo, affliggevano la propria vita ‹senza alcuna›
tregua ed eran costretti a smaniare con penosi lamenti,
comprese che lì il vaso stesso cagionava il male
e che dal male d'esso eran corrotte nell'interno
tutte le cose che giungevano raccolte di fuori, anche i beni;
in parte perché lo vedeva screpolato e forato,
sì che non si poteva mai riempire in nessuna maniera;
in parte perché scorgeva ch'esso al suo interno contaminava,
per così dire, di un repellente sapore qualsiasi cosa avesse accolta.
Purificò, dunque, gli spiriti con veridici detti
e stabilì il termine del desiderio e del timore,
e rivelò quale sia il bene sommo a cui tendiamo tutti,
e additò la via per la quale su breve sentiero
possiamo ad esso puntare con diritto cammino,
e quanto male sia diffuso nelle cose mortali,
che sorge e variamente vola per naturale caso
o forza, perché tale è l'assetto di natura,
e da quali porte convenga far sortite per affrontare ogni male;
e provò che per lo più vanamente il genere umano
agita nel petto amari flutti di affanni.