De rerum natura, libro I, 80-101
Il tono gioioso con cui Lucrezio, attraverso l’elogio di Epicuro, proclama la vittoria dell’umanità sulla religio [Ita1] [Lat], si spegne subito dopo, nella triste vicenda di Ifigenia [Ita2] [En1] [Fr1] [Sp1], figlia del re Agamennone. Egli avrebbe dovuto sacrificare per placare l’ira della dea Artemide, che impediva la partenza delle navi greche alla volta di Troia.
L’apparente distanza tra i due episodi viene, in realtà, colmata dai vv. 80-83, che fungono da cerniera: Lucrezio spiega infatti al suo destinatario che il trionfo di Epicuro sulla religione non deve essere assolutamente interpretato come un atto empio; l’epicureismo veniva spesso accusato proprio di empietà, per la sua visione materialista e per la rappresentazione delle divinità. Proponendosi di dimostrare come, al contrario, sia proprio la religio tradizionale a spingere gli uomini a compiere scelerosa atque impia facta, l’autore ricorre a un noto esempio tratto dal mito, che per la sua drammaticità aveva ispirato la celeberrima Ifigenia in Aulide di Euripide [En2], da cui Lucrezio stesso prende spunto in alcuni momenti.
Illud in his rebus vereor, ne forte rearis 80
impia te rationis inire elementa viamque
indugredi sceleris. quod contra saepius illa
religio peperit scelerosa atque impia facta.
A tal proposito, questo, appunto, io temo, che tu forse creda 80
di iniziarti ai principi di un’empia dottrina e di incamminarti
per la strada della scelleratezza, ché, anzi, proprio la religione
troppo spesso suole produrre azioni empie e scellerate.
Illud: è prolettico della proposizione, introdotta da un verbo di timore (vereor), ne forte rearis, da cui dipende l’infinitiva te…inire. Dal verbo dipende l’accusativo di moto a luogo senza preposizione, in quanto insita nel verbo, impia elementa.
In his rebus: è una formula di transizione, in cui Lucrezio fa riferimento a quanto affermato in precedenza, e particolarmente ai vv. 78-79.
Impia…sceleris: l’enjambement e l’iperbato impia elementa, in cui notiamo anche l’ipallage, mettono in evidenza l’oggetto della questione: la dottrina epicurea che, insegnando a non tener conto degli dei, doveva apparire empia ad un romano rispettoso dei valori del mos maiorum, tra cui spicca la devozione verso gli dei e l’osservanza delle pratiche religiose. Indugredi è arcaico per ingredi (a cui è preferito per ragioni metriche); anche questo verbo regge l’accusativo di moto a luogo senza preposizione (viam).
Quod contra: valore avversativo-correttivo.
Saepius…facta: con questa affermazione, resa particolarmente efficace dall’enjambement, dalla ripetizione anaforica dell’aggettivo impia, e dalla sfumatura dispregiativa che è possibile leggere nel dimostrativo illa, l’autore ribalta le accuse di empietà rivolte all’epicureismo, introducendo l’exemplum mitico. Peperit è perfetto gnomico.
Aulide quo pacto Triviai virginis aram
Iphianassai turparunt sanguine foede 85
ductores Danaum delecti, prima virorum.
Come, ad esempio, in Aulide i capi scelti dei Danai,
fior fiore degli eroi, deturparono vergognosamente 85
col sangue di Ifigenia l’altare della vergine Trivia.
Aulide quo pacto: mediante l’anastrofe viene posto in rilievo il teatro della vicenda, l’Aulide, il porto della Beozia, sullo stretto dell’Eubea, dove la flotta greca veniva trattenuta da venti contrari suscitati da Artemide-Diana, sdegnata con Agamennone che aveva ucciso una cerva a lei sacra. Per placare l’ira della dea bisognava sacrificarle la primogenita del re, Ifigenia. Quo pacto è un espressione comunemente usata per introdurre un esempio.
Triviai (arcaico per Triviae): è Artemide, detta Trivia o perché, come sostiene Varrone (De lingua latina, VII, 16), era venerata in piccoli tabernacoli posti nei crocicchi, detti appunto trivia, o perché era nota sotto tre ipostasi: Selene (in cielo), Artemide (in terra) ed Ecate (negli Inferi).
Caratteristico della dea è l’epiteto virgo (virginis).
Iphianassai: come nel caso del precedente Triviai, Lucrezio sceglie, per indicare il nome della figlia di Agamennone, la versione più antica, quella usata dallo stesso Omero, poi sostituita dai poeti tragici con “Ifigenia”. Tale scelta si rifà alla ricerca, tipica della poesia docta, della tradizione più rara e difficile, e, quindi, preziosa. Anche Iphianassai è la forma arcaica del genitivo femminile singolare, con cui Lucrezio ha voluto conferire al passo “un senso di religioso orrore”.
Turparunt sanguine foede: il verbo è una forma sincopata del perfetto turpaverunt, dal significato estremamente pregnante, da cui dipendono l’ablativo strumentale sanguine e l’avverbio foede, non a caso utilizzato nel v. 62, per indicare il vergognoso atteggiamento degli uomini nei confronti della religio, prima che Epicuro intervenisse a liberarli.
Ductores…virorum: l’allitterazione sottolinea il tono fortemente sarcastico con cui Lucrezio definisce i ductores Danaum (=Danaorum) delecti “prima virorum”, quando, in realtà, non si tratta che di assassini macchiatisi del sangue di una fanciulla innocente. Insistendo sul contrasto tra la nobiltà ed il valore dei personaggi e l’ignominia del loro delitto, il poeta vuole evidenziare come la religio mieta vittime tra tutti gli individui, senza distinzione di classe sociale.
Cui simul infula virgineos circum data comptus
ex utraque pari malarum parte profusast,
et maestum simul ante aras adstare parentem
sensit et hunc propter ferrum celare ministros 90
aspectuque suo lacrimas effundere civis,
muta metu terram genibus summissa petebat.
Ed appena l’infula, circondandole le virginee chiome,
fu lasciata cadere dall’una e dall’altra guancia in ugual misura,
e si accorse che il padre stava ritto davanti all’altare,
dolente, e accanto a lui i sacerdoti nascondevano le spade 90
e i soldati, alla vista di lei, piangevano,
muta per il terrore, caduta sulle ginocchia s’abbatteva a terra.
Cui: il nesso relativo (riferito ad Ifigenia) ci introduce in medias res, nel momento in cui la giovane, condotta all’altare col pretesto di sposare Achille, scopre, al contrario, l’orribile verità. La drammatica descrizione degli ultimi istanti di vita di Ifigenia si sviluppa, quindi, su di un doppio binario: quello del rito sacrificale, cui la fanciulla è destinata, e quello del rito nuziale, a cui, invece, avrebbe dovuto essere destinata.
Simul…profusast (=profusa est) /simul…sensit: Temporali in ripetizione anaforica, che rendono l’idea dell’immediatezza con cui, osservando i presenti, Ifigenia comprende di non essere una sposa felice, ma una vittima sacrificale.
Infula: è la benda che veniva posta intorno al capo delle vittime prima di un sacrificio, ma era usata anche per le spose; stesso riferimento alle nozze anche in comptus (allitterante con circumdata), sostantivo che indica propriamente “i capelli ben pettinati ed acconciati” (da como, is), come si addice, appunto, ad una sposa.
Ex…parte: da notare la costruzione, non comune, di utraque con il genitivo malarum, in luogo dell’ablativo singolare mala. Pari parte profusast allitterano, accentuando l’angoscia del momento.
Maestum…sensit: l’enjambement crea un drammatico senso di sospensione fino alla tragica scoperta (sensit) del proprio destino di morte, percepito dall’atteggiamento del padre maestum (in forte iperbato rispetto al sostantivo), improntato ad una composta afflizione, che non ha nulla a che fare con la disperazione manifestata, invece, dalla “gente comune” (vd. v. 91), come se la religio avesse cancellato, in lui, l’amore paterno. Ante aras adstare: l’allitterazione sottolinea, ancora una volta il binomio sacrificio-nozze, cogliendo Agamennone in un atteggiamento tipico del padre che partecipa allo sposalizio della figlia.
Hunc…ministros: come la precedente ante aras adstare parentem e la successiva lacrimas effundere civis (=cives), si tratta di un’infinitiva dipendente da sensit, e rappresenta una delle scene che si offrono allo sguardo sempre più atterrito, e consapevole, di Ifigenia. L’anastrofe (hunc propter) e l’iperbato(hunc…ferrum), insieme alla posizione di rilievo, a fine verso, data al termine ministros, sottolineano l’ipocrisia del gesto dei sacerdoti, che diventano, in questo contesto, una sorta di metafora della religione; infatti, come la religio nasconde i suoi delitti, legittimandoli dietro una parvenza di sacralità, così i sacerdoti nascondono le spade con cui si apprestano a sacrificare un’innocente. Gli unici che sembrano partecipare al dramma della giovane sono i civis, i soldati semplici (in evidente contrasto con i ductores delecti del v. 86), che, per quanto abituati alle crudeli scene di guerra, non riescono, tuttavia, a trattenere le lacrime di fronte alla povera fanciulla.
Muta…petebat: compresa la terribile verità, Ifigenia si abbandona al destino di morte impostole, con un gesto che è di rassegnazione e supplica insieme. Estremamente efficace l’accostamento muta metu (dove metu è complemento di causa), che dà origine ad allitterazione.
Nec miserae prodesse in tali tempore quibat,
quod patrio princeps donarat nomine regem;
nam sublata virum manibus tremibundaque ad aras 95
deductast, non ut sollemni more sacrorum
perfecto posset claro comitari Hymenaeo,
sed casta inceste nubendi tempore in ipso
hostia concideret mactatu maesta parentis,
exitus ut classi felix faustusque daretur. 100
Tantum religio potuit suadere malorum.
Né, in tale circostanza, poteva giovare alla misera
il fatto di aver dato per prima al re il nome di padre;
infatti, sollevata dalle mani dei soldati, fu condotta tremante 95
all’altare, non perché, terminato il solenne rito sacro,
potesse essere accompagnata da un luminoso corteo nuziale,
ma perché, impuramente pura, proprio in età da matrimonio
cadesse vittima infelice sotto i colpi del padre,
perché fosse data alla flotta una partenza felice e fortunata. 100
Tanto male poté suggerire la religione.
Nec…regem: i versi richiamano un passo della tragedia euripidea, in cui veniva posto l’accento sulla primogenitura come aggravante di un delitto tanto efferato. L’aggettivo sostantivato miserae, dativo dipendente da prodesse, è messo in rilievo dalla posizione ad inizio verso. Tali tempore: espressione allitterante, molto usata da Lucrezio. Quod…donarat (sincopato per donaverat) è una dichiarativa dipendente da prodesse, mentre princeps, predicativo riferito ad Ifigenia (“per prima”) allittera con patrio, in iperbato rispetto a nomine; le figure mirano ad intensificare il pathos.
Sublata…deductast (deducta est per aferesi): il participio perfetto, che indica, in questo contesto, il gesto con cui i soldati sollevano Ifigenia, incapace di camminare per la paura (tremibunda), è un altro riferimento alla cerimonia nuziale, in cui era usanza che la sposa venisse sollevata al momento di entrare nella nuova casa, in modo da non inciampare sulla soglia (che era considerato di cattivo augurio). Deducere era, appunto, il termine tecnico usato per indicare l’accompagnamento della sposa a casa dello sposo.
Non ut…posset / sed…concideret: proposizioni finali in cui viene reso esplicito il confronto tra le nozze ed il sacrificio. Sollemni more perfecto è ablativo assoluto con valore temporale; perfecto allittera con posset, così come claro e comitari; l’aggettivo si riferisce ad Hymenaeo, definito “luminoso”, perché, al termine del rito, un corteo munito di fiaccole accompagnava (comitari, qui con valore passivo) gli sposi, invocando Imene, il dio propiziatore delle nozze. Per questo motivo sia il canto, sia il corteo erano detti “Imeneo”.
Dotato di straordinaria potenza espressiva è l’ossimoro casta inceste (che dà origine anche alla figura etimologica), con cui Lucrezio vuole evidenziare il contrasto tra la purezza di Ifigenia e la nefandezza del delitto di cui sta per cadere vittima (hostia concideret), proprio nel momento della vita in cui avrebbe dovuto, invece, celebrare le sue nozze (nubendi tempore in ipso, anastrofe). La giovane, morendo prima di conoscere le gioie del matrimonio, sarebbe rimasta pura (casta) per sempre, ma in nome di una superstizione scellerata e crudele (inceste). Vi è, poi, chi riferisce l’avverbio inceste a concideret, traducendo con “cadesse in modo così nefando lei così pura”.
Mactatu maesta parentis: l’allitterazione e l’iperbato (hostia…maesta, predicativo del soggetto sottinteso illa) sottolineano, ancora una volta, il pathos, intensificato, inoltre, dalla scelta di attribuire l’ablativo di causa mactatu (da tradurre al plurale) al genitivo parentis, come se fosse stato Agamennone in persona ad uccidere la figlia.
Exitus ut…daretur: finale, costruita con l’anastrofe, in cui Lucrezio riprende, in modo fortemente sarcastico, la formula augurale che i sacerdoti pronunciavano a Roma al termine di ogni sacrificio: quod bonum felix faustum fortunatumque sit; l’allitterazione felix faustusque riproduce una cifra stilistica propria della lingua arcaica.
Tantum…malorum: la vicenda non si conclude, come vorrebbe il mito, con il salvataggio in extremis della fanciulla ad opera della stessa Artemide, che pose sull’altare una cerva, portando con sé, in Tauride, Ifigenia, che sarebbe diventata sacerdotessa della dea. Si tratta di una vicenda che non può non ricordare l’episodio biblico di Abramo ed Isacco: anche in quel caso abbiamo la richiesta, da parte della divinità, di sacrificare il proprio figlio, anche se, nel finale, la stessa divinità interviene sostituendo con un animale la vittima umana predestinata. Ma mentre nel caso di Abramo il sacrificio di Isacco avrebbe rappresentato una prova di fede, nel caso di Agamennone c’è una colpa da espiare, a causa della quale una missione non può essere portata a termine; Ifigenia diventa così una vittima della ragion di Stato, in una concezione utilitaristica della religione, assente nella vicenda di Abramo.
Ma Lucrezio non avrebbe mai potuto prospettare, per la vicenda, un lieto fine, per giunta grazie all’intervento della divinità. Conclude, piuttosto, con una celeberrima frase, estremamente icastica, il cui soggetto è proprio la religio, il mostro terribile che suggerisce agli umani le azioni più turpi (tantum malorum, dove notiamo la costruzione con il genitivo partitivo): un messaggio che ha percorso, immortale, i secoli, e tragicamente vivo anche ai giorni nostri.